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Italia Spaziale

Perché all’Italia spaziale serve uno storytelling più efficace

L'investimento italiano in tecnologia, innovazione e ricerca scientifica è tutt'altro che disprezzabile e consegue anche risultati significativi. Ma quando si deve rappresentare questa realtà, finiamo per cadere nei cliché. Il corsivo di Battista Falconi

C’è più Italia nello spazio di quanto spazio ci sia in Italia, nel senso che l’investimento italiano in tecnologia, innovazione e ricerca scientifica è tutt’altro che disprezzabile e consegue anche alcuni risultati significativi. Quando si deve rappresentare questa realtà sui media, però, finiamo per cadere in alcuni cliché. Uno dei più utilizzati è l’insufficienza delle risorse, l’altro è la lamentela per la cosiddetta “fuga dei cervelli”. Per quanto riguarda il primo, è ovvio che i finanziamenti non bastino mai a chi li chiede, ma se si guarda alle condizioni reali notiamo che un emendamento dei relatori alla manovra prevede per la ricerca, anche applicata, 500 mila euro all’anno in più per tre anni. Il governo si è poi confermato pronto a sostenere l’impegno per ospitare Einstein Telescope: una lettera ad Antonio Zoccoli, presidente dell’Istituto nazionale di fisica nucleare e coordinatore della candidatura italiana, assicura circa 950 milioni di euro complessivi durante i nove anni previsti per la costruzione, dal 2026 al 2035.

Il problema, come spesso capita nella società ipermediale in cui siamo immersi, è la narrativa. Basti dire che sul finanziamento a ET, infrastruttura che permetterebbe di evolvere significativamente l’osservazione e la conoscenza del cosmo, i parlamentari sardi Marco Meloni e Silvio Lai, del Partito Democratico, hanno lamentato che le risorse andrebbero garantite in una legge e in particolare nella manovra di bilancio triennale 2024-2026. Mentre è ovvio che la posta non possa essere assegnata quando ancora non si è deciso dove l’Europa vorrà installare il telescopio. Un po’ come accade per chi lamenta l’espatrio dei nostri ricercatori, dato fisiologico in un comparto intellettuale ad altissima mobilità, mentre il problema è semmai la scarsa (ma non così disprezzabile) attrattività italiana per i ricercatori stranieri.

In questa narrativa si tende poi a vantare alcune operazioni di immagine senza cogliere l’importanza sostanziale di altri investimenti e risultati. Ce ne siamo accorti particolarmente in questo periodo, nel quale si sono accavallati diversi fatti significativi, con la partecipazione italiana alla missione AX3 in collaborazione con Axiom, particolarmente importante perché traguarda la fine della ISS, la Stazione spaziale internazionale che ha finora ospitato gli astronauti europei.

In questo contesto, la robusta presenza della nostra nazione si concretizza intanto in Walter Villadei, l’astronauta dell’Aeronautica militare che per la prima volta piloterà una navicella spaziale, poi nei moduli abitabili prodotti da Thales Alenia Space Italia, leader mondiale in queste tecnologie. Infine, negli esperimenti di area biomedicale dell’Agenzia spaziale italiana, in coordinamento con alcuni enti e università, che riguarderanno effetti della microgravità sulle proteine implicate in malattie neurodegenerative come il morbo di Alzheimer, studio della fertilità femminile e dello stress ossidativo base di disturbi cognitivi e comportamentali, ulteriori indagini sui marcatori molecolari, sulla misura in tempo reale dei livelli di radiazione e sulla capacità di schermatura di alcuni sistemi e materiali.

Eppure al pubblico è probabilmente arrivata notizia solo del progetto del Ministero dell’Agricoltura, la parte di sperimentazione che riguarda il cibo e che è stata più attenzionata dai media italiani. Questi ultimi, così come i pubblici cui si rivolgono, sono molto colpiti dalle immagini di colore: mentre, con tutto il rispetto, l’Italia spaziale non è soltanto pastasciutta. Il progetto Italian Food in Space però “tira” di più, si lega alla candidatura all’Unesco della cucina italiana quale Patrimonio culturale immateriale dell’umanità, e tanto basta. Ma allora, se si vuol dare attenzione ai segni simbolici, che hanno certamente la loro importanza, si potrebbe anche ricordare che a Caivano si è svolto il Festival della scienza delle arti e delle culture e dello sport, promosso dal Ministero dell’Università e della ricerca in un istituto comprensivo statale, con opere artistiche realizzate in collaborazione tra INFN e CERN di Ginevra. Evento il cui riconoscimento, però, implicherebbe anche sostenere il Governo nell’operazione forse più iconica che sta conducendo, pertanto meglio ignorarlo.

Comunque, sempre meglio il folclorismo che la fobia, come quella contro la produzione di energia da nucleare. Anche se sul tema, per fortuna, la posizione sta cambiando. Lo attesta l’intervento di Matteo Richetti, capogruppo di Azione alla Camera, che nella replica al ministro Pichetto Fratin durante il question time ha detto chiaro: “Investire sul nucleare significa pensare al futuro del paese”. Futuro non perché questa fonte possa da sola risolvere il complesso problema del fabbisogno energetico, italiano e non, ma perché non la si può neppure escludere dal variegato pacchetto che è necessario utilizzare, magari a favore delle pratiche “green”, più eticamente belle che buone sostanzialmente.

La narrativa verde è pericolosa, proprio perché restringe la visuale e confonde obiettivi e risultati con gli auspici. Come sia finita la Cop 28 è veramente difficile dirlo: secondo Ursula Von der Leyen e pochi altri l’accordo sottoscritto a Dubai è una buona notizia, ma pensare davvero che – come dice il segretario ONU Gutierrez, che su questo tema appare un po’ estremista, come del resto sul Medio Oriente – debba e possa finire l’era dei combustibili fossili significa semplicemente illudersi.

 

 

 

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