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Fioramonti Eni

Fioramonti, agenzia Anr, precari e non solo. Ecco sfide e subbugli sulla ricerca

Che cosa agita il mondo della ricerca. I veri nodi oltre gli annunci del ministro Fioramonti e il rebus della governance dell'agenzia Anr. L'analisi di Luigi Pereira

 

Il ministro Lorenzo Fioramonti (M5s), è stato definito dal forzista Giuseppe Moles come “il nuovo Toninelli. Ci ha abituato a gaffe e a dire tutto e il contrario di tutto”. Secondo il vice presidente del gruppo di Forza Italia al Senato, tra le cose dette e disdette, il titolare dell’Istruzione, Università e Ricerca una in particolare dovrebbe mantenere: “Ha dichiarato dopo il giuramento che, se nella legge di bilancio non ci fossero stati tre miliardi per la scuola, si sarebbe dimesso: quindi ora attendo le dimissioni, sempre che abbia rispetto per qualcosa”. Dichiarazione-minaccia che, per essere precisi, Fioramonti ha ristrombazzato a Repubblica ancora il 6 novembre scorso.

Di buone ragioni per lasciare, il titolare del Miur, ora ne avrebbe anche una seconda: gli articoli 28 e 29 della legge di Bilancio, scritti a suo dire da “burocrati” che non hanno coinvolto né lui né la comunità scientifica. “Forse è normale che una Legge di bilancio evolva continuamente. Ciò che è meno normale è che un ministro dell’Istruzione, dell’università e della ricerca venga a scoprire dalla rete dell’esistenza di norme che riguardano il suo settore, senza che sia stato neppure coinvolto”, ha lamentato Fioramonti su Facebook, riferendosi all’art. 28 sull’Agenzia per la ricerca e all’art. 29 sui ricercatori.

In particolare, sull’art. 28, il ministro spiega che “la versione iniziale di questo articolo era stata sviluppata escludendo il MIUR da qualunque ruolo. Siamo riusciti a farlo rientrare, ma rimane una problematica di fondo: il funzionamento e la governance di tale agenzia può essere deciso solo dopo un confronto con la comunità scientifica e una ricognizione delle migliori pratiche internazionali. Non può essere approntato da un paio di burocrati in un fine settimana. Quindi auspico che la legge di Bilancio si limiti a sancirne la costituzione e la dotazione economica, rinviando modello di governance e obiettivi a una norma ad hoc da realizzare nei primi mesi del nuovo anno “.

L’articolo 29, secondo Fioramonti, “va completamente rielaborato per evitare che gli enti pubblici di ricerca e i ricercatori vedano sbarrate le loro prospettive future”. Infine, “ci sono passaggi sulla pubblica amministrazione, con riferimento a università e ricerca, che destano perplessità. Io credo molto nel gioco di squadra, ma ciò prevede la condivisione dei processi e delle norme. Faremo gioco di squadra col Parlamento per modificare queste norme”.

Dell’Agenzia nazionale per la ricerca (ANR) si parla da molti anni, con l’intento di dare ordine a un comparto che include un centinaio di atenei, parecchie decine di enti di ricerca, che vede oltre al MIUR diversi altri ministeri vigilanti, che conta strutture esistenti sulla carta senza nemmeno un ricercatore in pianta organica, che – soprattutto – è notoriamente affetto da gap pesantissimi rispetto ai nostri partner (in termini di finanziamento complessivo e in particolare privato, di numero di addetti totale e rapportato alla forza lavoro, di capacità innovativo-brevettuale, di mobilità intellettuale e di laureati STEM). D

alla lettura dell’articolo 28 della bozza del ddl di bilancio per il 2020 l’ANR si configura come un organo a forte prevalenza politica, anziché – come auspicato da soggetti rappresentativi e associativi del settore quali il Gruppo 2003 – tecnica e indipendente, garantita da esperti. Il punto più critico è la modalità di formazione degli organi direttivi, che la proposta di legge indica quali persone di elevata qualificazione scientifica e con esperienza manageriale negli enti di ricerca, come scontato, lasciando però la scelta ai ministeri, alla CRUI, al CUN e alla Consulta degli enti di ricerca: quest’ultimo organo, peraltro, è stato appena sottoposto a un cambiamento di vertice; il presidente del CNR Massimo Inguscio ha lasciato a quello dell’ISPRA, Stefano Laporta.

Il dato non è irrilevante perché si lega a quello dell’ormai prossimo cambio di guardia al timone del maggiore Ente di ricerca pubblico italiano, il Consiglio nazionale delle ricerche appunto, che potrebbe concretizzarsi in modalità diverse: una proroga anche solo di qualche mese, un commissariamento o una nuova nomina, che però implica la preventiva costituzione del search committee incaricato di selezionare la rosa tra cui poi il ministro della Ricerca sceglie il titolare. Un search committee costituito da ricercatori ed esperti italiani e stranieri è anche quello che alcuni vorrebbero per l’Agenzia, così da non lasciare la palla agli organi prima elencati e ai condizionamenti governativi. La querelle ha un oggetto molto concreto, perché il compito dell’ANR sarebbe quello di erogare i finanziamenti competitivi ai ricercatori meritevoli. Una definizione non chiarissima e che non si capisce come si leghi alla dotazione di 25-200-300 milioni di euro ipotizzata per i prossimi tre anni e di cui non è ben specificata l’origine: non si capisce cioè se siano fondi aggiuntivi ai budget già assegnati alla ricerca oppure se vadano considerati inclusi e quindi detratti; inoltre i fondi sono palesemente insufficienti, laddove l’Agenzia davvero dovesse fungere da organo di finanziamento delle attività di ricerca meritevoli, o persino eccessivi se invece si trattasse del finanziamento relativo al mero funzionamento del nuovo organismo.

La tesi prevalente è che l’Agenzia dovrà gestire tutti i finanziamenti oggi erogati su base competitiva a seguito di bandi e che, in effetti, sono sparsi tra diversi ministeri e secondo diverse logiche. Il nuovo organismo avrebbe quindi una funzione di coordinamento, di coerenza, di unitarietà, secondo le buone pratiche internazionali: una prospettiva auspicata da tutti, ma che va in parallelo a quella – non altrettanto condivisa – dei grandi progetti a tema come lo Human technopole di Milano, dove tra i soggetti del settore si sono consumate e si consumano polemiche antiche e recenti. Inaugurato di recente dal premier Giuseppe Conte con toni roboanti, “la moderna casa della ricerca italiana, un esempio per la ricerca internazionale”, progettato per ospitare oltre mille ricercatori, dal 2020 lo HT dovrebbe intanto accogliere un centinaio di operatori dei big data.

A preoccupare i ricercatori, però, non è solo l’Agenzia. Dopo un incontro al MIUR con i vertici di CNR, INGV, Anton Dohrn e Istituto nazionale di oceanografia e di Geofisica sperimentale OGS di Trieste, nel quale si è parlato della nascita di un Istituto del mare con sede a Roma, Maria Cristina Pedicchio, presidente dell’OGS di Trieste, che potrebbe confluire nel nuovo Istituto, ha fatto sentire forte la sua voce di protesta e preoccupazione: “Le motivazioni riportate oggi non sono state convincenti, si è parlato solo di coordinamento, ma i coordinamenti non necessitano di un passaggio in finanziaria”. Nel frattempo, il Consiglio dei ministri del 6 novembre ha approvato il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri di riorganizzazione del Ministero dell’ambiente: “Abbiamo aggiunto un nuovo tassello alla strategia del Green New Deal”, ha annunciato il ministro Sergio Costa. Sulla carta si tratta soltanto di una nuova ripartizione amministrativa realizzata senza spese, ma è difficile non legarla ai processi della green e blue economy sui quali, a livello italiano e soprattutto europeo e internazionale, si agitano prospettive di impegni finanziari colossali.

Anche il comparto della ricerca scientifica si inserisce nel clima decisamente teso all’interno della maggioranza, è evidente. Tra Pd e M5s le tensioni nelle ultime settimane sono cresciute esponenzialmente, da entrambe le parti c’è chi sostiene che o si stringe un patto più forte, o si torna al voto. Ma il molto che si muove sotto il sole e le altre (tante, troppe?) stelle della ricerca scientifica e dell’innovazione tecnologica italiane rischia di lasciare in ombra i precari che sono stati illuminati dalla cronaca degli ultimi anni.

Le alchimie contabili della manovra rischiano di non consentire agli Enti di far scorrere le graduatorie, di aprire nuovi bandi, di sanare le posizioni sospese come le chiamate dirette. I coordinamenti si agitano inascoltati, i sindacati dividono la loro attenzione con altri temi sacrosanti, come il contratto integrativo, ma che rischiano di spegnere l’attenzione sulla deadline dei contratti a tempo determinato: secondo la Legge Madia non potranno più essere prorogati o rinnovati dopo il dicembre 2020. E proprio il prima citato articolo 29 del ddl di Bilancio potrebbe ostacolare definitivamente la soluzione per i non pochi esclusi dal processo di stabilizzazione condotto finora: il rapporto tra budget e spese per il personale, infatti, scenderebbe dall’80 al 70 per cento, precludendo la possibilità di accogliere i nuovi ingressi. Dall’11 al 13 novembre sono previste manifestazioni di protesta: vedremo se la piazza che in alcuni casi tanto clamore multimediale ottiene, dai Friday for future a Barcellona, dai gilet gialli fino a Hong Kong, avrà in questo caso almeno un minimo di supporto mediatico, politico e popolare.

 

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