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Fake News: le mossette di Facebook e le armi spuntate di Bruxelles

Che cosa fanno davvero istituzioni e aziende come Google e Facebook contro le fake news? Il commento di Umberto Rapetto, Generale (ris.) della Guardia di Finanza, già comandante del GAT Nucleo Speciale Frodi Telematiche

Si parla spesso di disinformazione e non tutti sanno che il peggio deve ancora venire. E l’Italia potrebbe assumere un ruolo di spicco, forse anche approfittando che la promessa disciplina in proposito (Atto Senato 2688 della precedente legislatura, contenente le “Disposizioni per prevenire la manipolazione dell’informazione online, garantire la trasparenza sul web e incentivare l’alfabetizzazione mediatica”, presentato il 28 febbraio 2017 e del quale non è mai iniziato l’esame) è solo uno sbiadito ricordo.

Se la macchina normativa è in stallo, segnali di attenzione arrivano dall’intelligence con l’allarme lanciato qualche giorno fa dal direttore del Dipartimento Informazioni per la Sicurezza a proposito di “operazioni di influenza/ingerenza poste in essere per condizionare il corretto svolgimento di fondamentali dinamiche dei processi democratici”.

Siamo prossimi all’alba di una tormenta di fake news che nessun cybermeteorologo ha il coraggio di annunciare e, in assenza di specifiche “app” che prevedano una simile bufera, tutti (anche e soprattutto chi ha responsabilità politiche) non scrutiamo certo l’orizzonte per scoprire cosa ci riservi il futuro.
Le imminenti consultazioni elettorali per il Parlamento dell’Unione Europea saranno precedute da un progressivo e incessante pullulare di nuovi siti web che irroreranno di immondizia gli schermi dei dispositivi tecnologici con sui ci affacciamo sul mondo che ci circonda.

Una spudorata operazione di propaganda è stata già strutturata nel minimo dettaglio da chi sta facendo rullare sulle piste del web un moderno Enola Gay virtuale che risulta pronto a sganciare fake news dalla capacità distruttiva non seconda agli ordigni che hanno polverizzato Hiroshima e Nagasaki. La totale mancanza di etica e l’assenza di una Convenzione internazionale – al pari di quella celeberrima di Vienna – che equipari (e vieti) le armi dell’informazione fanno sì che, nella machiavellica visione del fine che giustifica i mezzi, i più spregiudicati possano liberamente maciullare i pochi neuroni ancora vitali di una enorme fetta del popolo di Internet.

Una inappropriata interpretazione della libertà di espressione legittima gli artefici di questa micidiale operazione di “propaganda” che si apprestano a varare testate giornalistiche dal look autorevole e sapranno raggiungere la pancia di chi a breve distanza di tempo deve arrivare opportunamente indottrinato. Una sorta di ipnosi collettiva a lento rilascio andrà a completare quel paziente lavoro sperimentale avviato ormai da tempo e a cui nessuno è riuscito a mettere freno.

Le disposizioni promulgate dalla Commissione Europea per contrastare il fenomeno delle fake news si sono rivelate efficaci al pari della pallottola spuntata di cinematografica memoria. Le fiammeggianti dichiarazioni di intenti degli OTT (gli Over The Top, moderni latifondisti della Rete che tanto piacciono a schiavi e mezzadri dell’utenza mondiale) non hanno portato a nulla così come ammettono indirettamente gli stessi Facebook, Google e Twitter dopo aver promesso di ripulire le loro piattaforme da contenuti non veritieri, infondati, fuorvianti e socialmente pericolosi. La mancata comunicazione di dati, numeri, statistiche e quant’altro possa dare visibilità sulla situazione è prova palese che i buoni propositi di autoregolamentazione sono simili al “non lo faccio più” dichiarato dai bimbi birichini (e bugiardi) che non sono mai mancati in nessuna generazione.

Se si considera che il 57 per cento degli europei si informa principalmente su Internet, che ha quindi acquisito il ruolo di fonte primaria di conoscenza di quel che accade in giro per il mondo, ci si aspetterebbe lo sviluppo di una maggiore coscienza digitale nella gente che si muove online e la corrispondente assunzione di responsabilità da parte di chi gestisce le infrastrutture di aggregazione e confronto virtuale.

Gli strumenti di “pulizia” tanto ostentati dai social sono spesso rimasti allo stadio della promessa. Facebook, ad esempio, ha partner per il “fact checking” solo in 8 Paesi europei con la copertura di sette lingue.

La “disinformazia” non corre il rischio di veder stoppata la propria folle corsa. Soltanto cultura e consapevolezza possono farle lo sgambetto, ben comprendendo l’attendibilità di una fonte comincia dal conoscerne l’editore, la redazione, la sede, la tradizione, la credibilità dimostrata nel tempo.

È in gioco la democrazia e pochi se ne sono accorti.

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