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Ecco i nodi del capitalismo delle piattaforme. La relazione del Garante della privacy

Che cosa ha detto il presidente Pasquale Stanzione nel corso della relazione annuale 2020 dell'Autorità Garante per la protezione dei dati personali

 

IL CAPITALISMO DELLE PIATTAFORME

Il digitale ha dimostrato di poter essere al servizio dell’uomo, ma non senza un prezzo di cui bisogna avere consapevolezza: l’accentramento progressivo, in capo alle piattaforme, di un potere che non è più soltanto economico, ma anche – e sempre più – performativo, sociale, persino decisionale. Un potere che si innerva nelle strutture economico sociali, fino a permeare quel “caporalato digitale” rispetto ai lavoratori della gig economy, protagonisti (anche in Italia) del primo sciopero contro l’algoritmo: gli “invisibili digitali”, come da taluno sono stati definiti. I “gatekeepers”, appunto, stanno assumendo un ruolo sempre più determinante nelle dinamiche collettive, economiche, persino politiche, assurgendo a veri e propri poteri privati scevri, tuttavia, di un adeguato statuto di responsabilità.

La pandemia ha dimostrato l’indispensabilità dei servizi da loro forniti ma, al contempo, anche l’esigenza di una strategia difensiva rispetto al loro pervasivo ‘pedinamento digitale’, alla supremazia contrattuale, alla stessa egemonia “sovrastrutturale”, dunque culturale e informativa, realizzata con pubblicità mirata e microtargeting. Di più. La sospensione degli account Facebook e Twitter di Donald Trump ha rappresentato plasticamente come le scelte di un soggetto privato, quale il gestore di un social network, possano decidere le sorti del dibattito pubblico, limitando a propria discrezione il perimetro delle esternazioni persino di un Capo di Stato.

Il private enforcement dei social sembra, dunque, aver superato finanche quei limiti posti del Communication Decency Act, ritenuti incostituzionali dalla Corte Suprema. E nel nostro ordinamento, a fronte dell’oscuramento del profilo social di un movimento politico per diffusione di contenuti contrari alla policy del gestore, il Tribunale di Roma ha rilevato come il pur ordinario contratto privatistico di fornitura del servizio di social network soggiaccia a una peculiare forma di eteroregolazione dovuta alla sua incidenza su diritti fondamentali. È questo il nodo di fondo del capitalismo delle piattaforme: l’esigenza di una loro cooperazione nell’impedire che la rete divenga uno spazio anomico dove impunemente si possano violare diritti, senza tuttavia ascrivere loro un ruolo arbitrale rispetto alle libertà fondamentali e al loro bilanciamento, da riservare pur sempre all’autorità pubblica.

Su questo crinale stretto si muove il Digital Services Act (DSA), così da introdurre forme di responsabilizzazione delle piattaforme, il cui potere di moderazione dei contenuti viene assoggettato ad obblighi di trasparenza e a rimedi impugnatori che ne consentano un sia pur minimo sindacato esterno. L’approvazione di questo testo, oltre che del Digital Markets Act (DMA), auspicabilmente con le modifiche richieste dal Garante europeo, segnerà per ciò un passaggio importante, superando almeno in parte lo schermo immunitario che, sinora, ha reso i big tech attori egemoni – tanto quanto irresponsabili – nel contesto economico, informativo, sociale. Come abbiamo osservato in audizione al Senato, la responsabilizzazione delle piattaforme sarà determinante tra l’altro per contrastare la manipolazione delle notizie che, nello scorso anno, ha assunto i tratti di una vera e propria infodemia. Intervenendo in maniera complementare su aspetti diversi, tanto il DSA quanto il DMA rafforzeranno inoltre la garanzia della libertà cognitiva dell’utente-consumatore, quale diritto di non subire il potere pervasivo di condizionamento del microtargeting e del marketing fondato su tecniche psicometriche, volto a potenziarne la capacità persuasiva adattando il messaggio alle preferenze e alle inclinazioni desunte dalla profilazione algoritmica.

Non è un caso che, negli Usa, l’accesso alla “scatola nera” degli algoritmi, per verificarne l’impatto sulla circolazione delle notizie, sulla loro amplificazione e dunque sulla formazione dell’opinione pubblica, sia divenuto oggetto di richieste sempre più frequenti da parte di esponenti politici di opposti schieramenti. Questa potentissima forma di “nudging”, tesa ad orientare le scelte degli utenti secondo la stima predittiva dell’algoritmo, rivela quanto i singoli siano disarmati di fronte al potere performativo del digitale. In un contesto definito di “capitalismo estrattivo”- per l’attitudine predatoria delle piattaforme nei confronti dei dati, liberamente attinti come fossero res nullius – è indispensabile rafforzare – come ha fatto ad esempio la Corte di giustizia europea con la sentenza di novembre sul consenso on line e come fa lo schema di regolamento e-privacy – l’autodeterminazione informativa. In questa direzione il Garante ha, ad esempio, sottoposto al Comitato europeo per la protezione dei dati l’esigenza di accertare l’effettiva idoneità dell’informativa fornita da Whatsapp apparsa poco chiara, a consentire agli utenti la manifestazione di una volontà libera e consapevole. Essa presuppone del resto, come ha chiarito una recente sentenza di legittimità, la piena conoscenza della logica algoritmica applicata al trattamento, che deve essere inclusa dunque nell’oggetto del consenso. L’autodeterminazione informativa è, infatti, il necessario presupposto di scelte libere e, appunto, consapevoli, in un contesto in cui servizi apparentemente gratuiti sono invece pagati al caro prezzo dei nostri dati e, quindi, della nostra libertà. Perché “quando è gratis, il prodotto sei tu”.

(estratto dal discorso del presidente dell’Autorità Garante per la protezione dei dati personali; qui il testo integrale)

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