Circa un mese fa ci ha lasciati il filosofo americano, Daniel Dennett, noto, anche in Italia, per le sue teorie e le sue opere sulla coscienza. Nessuno (purtroppo) in Italia ne ha menzionato con la giusta enfasi la morte, nonostante Dennett sia stato un filosofo tra i più prolifici, che ha conosciuto una certa fama negli Usa, dove dirigeva un Centro studi sulle scienze cognitive presso l’Università di Tufts, ma anche nel resto del mondo. In Italia, fu la Rizzoli negli Anni ’90 a pubblicare la sua principale opera, “Consciousness explained”, che ha rappresentato e rappresenta ancora oggi un punto di riferimento per le teorie di stampo neo empirista, neo evoluzionista della coscienza.
Dennett si è contraddistinto per aver messo in parallelo le teorie dell’Evoluzionismo con la sua teoria della coscienza, nell’ambito della filosofia della mente, rifacendosi molto alle idee del biologo neo-evoluzionista Richard Dawkins. Come Dawkins, Dennett ha posto a fondamento della storia della coscienza, quale prodotto recente della cultura umana, la memetica, una specie di teoria parallela alla genetica. Come per la genetica esistono i geni che favoriscono l’evoluzione in natura, nella memetica operano i memi (termine derivato da mimesis, imitazione) che trasferiscono informazioni nell’ambito della cultura favorendone l’evoluzione. La coscienza è il frutto di questo lavoro evolutivo.
Per Dennett la coscienza non è un centro di conoscenza e di sensazioni ma un insieme di moduli funzionali che lavorano in uno spazio globale di lavoro e che concorrono sino ad affermare un contenuto. Questa teoria si inserisce in una più grande scuola di pensiero che fu iniziata durante l’Illuminismo scozzese da David Hume, che ha dato molto filo da torcere ai filosofi della mente e agli scienziati cognitivi. Per Hume la mente non è una sostanza, bensì un fascio di percezioni, né tanto meno un omino (homunculus) che nella nostra testa conosce la realtà. Dennett è stato considerato da molti un negazionista della coscienza.
Non solo a Hume si è rifatto il filosofo di Tufts ma anche a William James che sulla strada tracciata dal filosofo scozzese nel ‘700 aveva negato la possibilità che esistesse una specie di neurone pontificio che spiegasse la nostra attività conoscitiva e di pensiero. Anche James intende disfarsi della coscienza quale sostanza spirituale a favore di una versione più funzionale. La versione decentrata della coscienza così come viene teorizzata da Daniel Dennett trova riscontro nei modelli delle neuroscienze oggi, che invece di cercare la sede della coscienza (eterno problema al quale Cartesio aveva dato la traballante soluzione della ghiandola pineale) si concentrano sulle strutture neuronali alla ricerca di paralleli per dare veste alla coscienza. Per questo Dennett ha sempre respinto l’idea che la coscienza fosse un mistero, per molti filosofi si tratterebbe dell’ultimo mistero che hanno davanti le scienze e di cui non riescono a dare ragione. Invece, secondo Dennett “La coscienza è l’illusione del cervello su se stesso o, più precisamente, è un’intera manciata di illusioni dell’utente per vari componenti del cervello che devono svolgere diversi lavori di discriminazione e controllo”. Per lui non c’è nulla di misterioso, ma solo un’abitudine degli uomini nel ritenere che nella nostra testa, nel nostro cervello, ci sia una specie di cabina di regia che conosce la realtà, e ne coglie le sfaccettature. Al contrario le teorie neuroscientifiche come quella di Stanislas Dehaene e Lionel Naccache di ispirano a modelli di elaborazione delle informazioni periferici, in cui gli stati neurali per quanto piccoli sono complessi e concorrono a portare conoscenza, a creare memoria e sono non del tutto noti, ancora oggi.
Il contributo critico e vivace, potremmo definirlo così, che Dennett ha apportato agli studi filosofici e cognitivi sulla coscienza del Ventesimo secolo non si potrebbero considerare nella sua interezza senza il parallelo, di cui è stato uno dei principali artefici, tra la mente umana e il computer. Siccome oggi il dibattito sull’Intelligenza artificiale appare molto vivido, sarebbe bene recuperare lo spirito che ha animato molti teorici del settore filosofico sin dagli albori dell’AI, ovvero dopo Alan Turing. Per Dennett è la mente umana ad essere modellata sulla struttura del computer o del calcolatore che sia e non il contrario. La mente umana reagisce agli input con degli output e grazie a dei trasduttori che portano informazioni così come accade nel computer. Le nostre qualità sensitive (quelle che i filosofi chiamano tecnicamente i “qualia”) sono una specie di software, un programma (della mente) impiantati su un hardware. Per questo motivo John Searle che non ha lesinato critiche alla teoria della coscienza di Dennett, contestando l’impianto, ha qualificato questo modello di Intelligenza artificiale come una versione “forte” di Intelligenza artificiale.
A ottobre prossimo sarà pubblicato in Italia il nuovo libro di Daniel Dennett grazie al lavoro della Raffaello Cortina Editore. Il lavoro si intitola “Pensiamoci bene. Avventure nella filosofia”. Si tratta di un’autobiografia intellettuale e filosofica dell’autore. Probabilmente non ci saranno nuove teorie, ma certamente il lettore avrà la possibilità di comprendere le basi del pensiero di Dennett, che ha molto influenzato le teorie filosofiche sulla mente e sulla coscienza.