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Penna A Sfera

Dal giornalista Birò all’imprenditore Bic, come è nata la penna a sfera?

L’evoluzione della scrittura va di pari passo con quella del suo strumento principe: la penna. I salti innovativi che ne fanno un oggetto di produzione di massa e l'Italia che diventa protagonista con il polo industriale torinese. L’articolo di Stefano Caliciuri dall’ultimo numero del quadrimestrale di Start Magazine

 

Gli storici sono concordi nel ritenere che le prime forme di scrittura siano comparse circa 5 mila anni fa grazie ai Sumeri, segnando il passaggio dalla Protostoria alla Storia vera e propria, quella cioè verificabile attraverso la consultazione delle fonti. Sino ad allora l’uomo si era limitato a incidere sulla roccia scene di vita quotidiana. Grazie al popolo mesopotamico avvenne quella che in senso lato si potrebbe definire la prima grande rivoluzione tecnologica dell’umanità: la rappresentazione di espressioni linguistiche attraverso segni grafici standardizzati incisi nell’argilla.

Bisogna attendere ancora circa cinquecento anni per avere il secondo grande cambio di paradigma e lo si deve agli antichi egizi. Intuirono che sovrapponendo strisce di corteccia di papiro si poteva ottenere una superficie – leggera e trasportabile – su cui poter tracciare segni permanenti. Per farlo, utilizzavano sottili steli di giunco imbevuti in una sorta di inchiostro che poteva essere nero, se derivato dal carbone, oppure rosso, se ottenuto dall’argilla. Inizia così la storia di uno strumento fondamentale per la scrittura, l’oggetto grazie al quale possiamo conoscere tutto ciò che sappiamo del passato e che lasceremo in dote nel futuro.

DAGLI STELI DI GIUNCO AI PENNINI METALLICI

Il giunco venne utilizzato con ogni probabilità sino al V secolo d.C., sino a quando si intuì che la cannuccia del vegetale poteva essere sostituita dalle penne degli uccelli, da cui il nome che si tramanda ancora oggi. Dal Medioevo vennero utilizzate esclusivamente quelle di oca perché più lunghe e resistenti. Avevano un solo inconveniente: per ottenere linee precise, la punta doveva essere frequentemente temperata, come si fa ancora oggi con le matite.

Nella prima metà del XIX secolo entrano in scena i primi pennini metallici. Presentavano però un problema: erano estremamente rigidi. Fu per primo il giornalista inglese James Perry sul finire del 1700 ad intuire che bastava forarlo per dare l’elasticità necessaria per avere una scrittura accurata e ricca di fronzoli come era consuetudine del tempo.

I pennini però facevano aderire una maggiore quantità di inchiostro al foglio e, oltretutto, il movimento tra carta e calamaio spesso causava irreparabili macchie d’inchiostro. Ma il genio umano ha saputo risolvere anche questo problema, ideando una sorta di serbatoio collegato al pennino; progetto perfezionato nella seconda metà dell’800 da Lewis Waterman, un assicuratore americano che ne brevettò la versione definitiva rendendo la penna stilografica un oggetto di diffusione di massa.

L’IMPRESA DELLA PENNA A SFERA

L’ultima tappa della storia della penna porta il nome di un’altra persona che la usava per mestiere, il giornalista ungherese László Biró (1899-1985). Due le sue geniali intuizioni. Biró cominciò a usare per scrivere lo stesso tipo di inchiostro utilizzato per stampare i quotidiani, molto più rapido nell’asciugatura a contatto con la carta. Aveva però un limite: essendo anche più denso faceva difficoltà a colare nel pennino. La genialità venne in soccorso: all’estremità della sua penna Biró mise una piccola sfera mobile così che, scorrendo ininterrottamente sulla carta, mentre una metà lascia la traccia sul foglio, l’altra metà si impregna di inchiostro. Nonostante le buone prospettive e una sostanziosa commessa pubblica voluta dal governo inglese, per Biró i costi di produzione anche su larga scala erano insostenibili, incidendo di conseguenza sul prezzo di vendita al pubblico. L’impresa era a un bivio: chiudere o essere venduta. Fu un imprenditore torinese naturalizzato francese, Marcel Bich, a farsi avanti e acquistare i brevetti della penna a sfera. Furono sufficienti due piccoli accorgimenti tecnici che migliorarono il passaggio dell’inchiostro dal tubo alla sfera e l’utilizzo di materiali di fabbricazione meno costosi per riuscire a immettere sul mercato una penna alla portata di tutti. Era nata la Bic.

IL DISTRETTO INDUSTRIALE TORINESE

Grazie e attorno ad essa fiorì un vero e proprio polo industriale, sconosciuto ai più, radicatosi nella prima cintura a nord di Torino. Le economie cittadine di Borgaro, Mappano, Brandizzo, Leinì, Volpiano ma soprattutto Settimo Torinese fiorirono attorno alla fabbricazione delle penne. Un distretto che sino alla fine dello scorso millennio ospitava circa 150 aziende, elevandolo a primo polo europeo per la produzione di penne a sfera, pennarelli e accessori per la scrittura.

Le circostanze che portarono piccole comunità locali a diventare il cuore internazionale della produzione di penne furono assai fortuite. Si deve risalire al Piemonte di Carlo Alberto e di Vittorio Emanuele II, quando la famiglia Pagliero di Settimo Torinese sviluppò un’attività di lavorazione dei bottoni, producendoli prima in osso per le giacche e le divise reali, poi in avorio, sino ad arrivare a utilizzare le innovative per l’epoca celluloide e galatite.

All’alba del primo conflitto mondiale i bottonifici cominciarono ad andare in crisi e Luigi Pagliero intuì che la sopravvivenza sarebbe stata garantita soltanto diversificando la produzione e utilizzando nuovi prodotti artificiali da lavorare al tornio: l’ebanite e la galatite. Fu la svolta. La repentina diffusione delle penne e delle matite spinsero i Pagliero a utilizzare i due materiali per costruire i portamine su larga scala. L’esempio venne copiato da molte famiglie del posto. A Settimo cominciarono così a fiorire tante piccole “boite”, le botteghe artigianali piemontesi, che producevano portamine a mano con l’aiuto di tutta la famiglia. Dai portamine alle penne stilografiche il passo fu breve. Nel 1944 Settimo Torinese aveva decine e decine di piccoli e piccolissimi laboratori domestici: era sufficiente un tornio in casa e tante mani per montare velocemente tutte le componenti che avrebbero poi formato la penna. Se ne producevano migliaia al giorno. Le penne erano destinate per la maggior parte al mercato del lusso che passava da Milano per arrivare in tutta Europa e soprattutto nella Germania nazista, dove i tedeschi diventarono presto i migliori clienti dei “piumisti” settimesi.

Alla produzione di “bic” e stilografiche, negli anni Cinquanta si affiancò anche quella di una terza invenzione nata dalla creatività di Luigi Barosso, un chimico anch’egli di Settimo Torinese: la penna a feltro di lana, più comunemente conosciuta come pennarello. Grazie anche all’obbligo scolastico, i nuovi strumenti di scrittura fecero decollare l’economia della cintura a nord di Torino, vivendo un boom occupazionale eccezionale. C’era lavoro per tutti: gli uomini nella grande industria, le donne per le piccole realtà artigiane che consegnavano a domicilio le componenti per assemblare le penne: la cannuccia (il corpo della penna), il refill, il cappuccio.

Intere generazioni sono cresciute a Settimo Torinese con l’odore della plastica e le mani perennemente sporche d’inchiostro. Erano gesti ripetitivi, non occorreva competenza specifica. Bastava infilare il refill nel tubetto in plastica e mettere poi il cappuccio. Altre famiglie si dedicavano invece a “fare le buste”. Erano meno numerose, perché per lavorare non bastava un tavolo ma serviva più spazio. Si inseriva un bastone (spesso il manico di una scopa) dentro la grande bobina di plastica e si appoggiavano le due estremità su due sedie così che potesse girare. Il lavoro era semplice: inserire un dito lungo il tratteggio e strappare la busta che sarebbe servita come confezione per le penne. Ce n’erano di varie misure, a seconda di quante penne avrebbero dovuto ospitare. Alla fine degli anni Ottanta la paga era di una lira a busta. Con impegno e facendosi aiutare anche dai bambini di casa si riusciva ad arrivare anche a 10 mila pezzi al giorno. Le imprese rispondevano – e rispondono – al nome di Universal (con i brand Carioca e Corvina), Walker Pen, Aurora, Lecce Pen: nomi storici del settore italiano.

Con l’avvento dei moderni strumenti tecnologici, la delocalizzazione delle aziende, l’arrivo dei prodotti asiatici e la pesante crisi economica, è iniziata la curva di discesa della produzione locale di penne. Oggi, in quel territorio, le aziende del settore ancora sul mercato sono rimaste meno di dieci e la maggior parte si dedica alla produzione in serie di penne a sfera promozionali o pennarelli in plastica. Chi ha voluto specializzarsi ha invece optato per la realizzazione di penne di altissima gamma, destinate soprattutto ai mercati russi e arabi, ma si tratta ormai di poche imprese a conduzione familiare.

 

È possibile scaricarne gratuitamente la versione digitale in pdf utilizzando questo link: https://www.startmag.it/wp-content/uploads/SM_16_web.pdf.

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