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Google

Così Google raccoglie i nostri dati. E la polizia li usa per le indagini

Secondo il New York Times, adesso la polizia negli Usa opera con una sorta di pesca a strascico da un bacino che è il database di Google chiamato dai dipendenti (il nome ufficiale resta un mistero) Sensorvault.  Tutti i dettagli

 

Negli Usa da tempo la polizia ha iniziato a bussare alle porte di colossi come Google che, è noto, dispongono di un’ingente quantità di dati personali dei loro utenti (leggi anche: Amazon, Apple e G. Spiati dagli assistenti intelligenti?), per raccogliere elementi di prova a carico di sospetti durante le indagini. Nessuno dice nulla quando si arriva al vero colpevole, perché in fondo Oltreoceano “il fine giustifica i mezzi”, anche in campo giuridico. Ma cosa succede invece quando queste incursioni nella privacy altrui portano all’individuazione del soggetto sbagliato?

MENO PRIVACY, PIU’ SICUREZZA?

Ne ha parlato recentemente il New York Times, in un lungo reportage che, sulla base di fatti concreti, mette in luce tutti i limiti di un sistema tecnologico sempre più inquisitorio e aggressivo, spesso ai danni di onesti cittadini. Non deve stupire: gli americani hanno accettato da tempo, con il Patrioct Act promulgato successivamente all’attacco alle Torri Gemelle del 2001, forti limitazioni alla loro riservatezza in cambio di una maggior sicurezza. Eppure,  se da un lato le odierne tecnologie forniscono agli inquirenti armi sempre più sofisticate, dall’altro lasciano i cittadini sguarniti di guarentigie costituzionali. Ecco perché il settore deve essere regolamentato.

MA NON DIMINUISCONO GLI ERRORI

Anche perché, si diceva, se è possibile tollerare le intromissioni indebite da parte di chi indaga quando portano all’individuazione di un colpevole, non è accettabile che siano foriere di errori giudiziari: oltre il danno la beffa. E’ successo per esempio lo scorso dicembre a Jeorge Molina, malcapitato operaio di Phoenix, capitale dell’Arizona alla cui porta hanno bussato le forze dell’ordine: nemmeno il tempo di realizzare cosa stesse accadendo che si è ritrovato in carcere con l’accusa di omicidio. Secondo gli inquirenti, nove mesi prima avrebbe ucciso un uomo a colpi d’arma da fuoco. Due le principali prove a suo carico: il fatto che gli spari siano partiti da una Honda Civic bianca, come quella del signor Molina, rimasta immortalata nei video di alcune telecamere di sorveglianza (senza però che si vedesse la targa) e che Google lo avesse geolocalizzato nei dintorni del luogo del delitto.

TRADITO DAL CELLULARE

Il signor Molina ha passato una settimana in carcere durante la quale il quadro accusatorio ha iniziato, però, a sgretolarsi. Il mese scorso gli investigatori hanno arrestato l’ex compagno di sua madre con la medesima accusa. L’uomo ogni tanto usava l’auto dell’indagato. Certo, ci troviamo di fronte a un caso limite, in cui quello che presumibilmente è il vero assassino (mai in questo caso, occorre cautela e ribadire che si è innocenti fino al passaggio in giudicato della sentenza di colpevolezza) usasse l’auto dell’individuo finito in carcere per sbaglio.

LA PESCA A STRASCICO DELLA POLIZIA USA

Il tema è quello che adesso la polizia opera con una sorta di pesca a strascico da un bacino che è il database di Google chiamato dai dipendenti (il nome ufficiale resta un mistero) Sensorvault. Apple da parte sua ha fatto sapere al New York Times di non poter eseguire simili ricerche. Le informazioni raccolte dai moderni device sono tante e tali che consegnano agli inquirenti uno spaccato sulle vite degli altri. Prima, invece, con le intercettazioni classiche, si procedeva con mandati molto precisi e vincolati alle richieste avanzate e sulle quali un giudice aveva dato il proprio ‘ok’. In più, anche se per certi versi il sistema è analogo a quello che permetteva di visualizzare le celle a cui si agganciano i cellulari, basandosi sulla geolocalizzazione satellitare si è rivelato molto più preciso e dettagliato.

GLI SMARTPHONE, SCATOLE NERE DELLA VITA DI CIASCUNO DI NOI

Non a caso, il nuovo sistema alle forze dell’ordine statunitensi piace. “Mostra l’intero modello di vita”, ha detto Mark Bruley, il vice capo della polizia a Brooklyn Park, Minnesota, dove gli investigatori hanno usato la tecnica da questo autunno. “Questo è ciò che gli conferisce una marcia in più”. Per questo la polizia ha iniziato a usarlo sempre più spesso tanto che Google ormai fatica a stare dietro alle continue richieste degli investigatori. Nel caso del signor Molina sono passati per esempio sei mesi tra il mandato e il momento in cui la società ha consegnato i dati.

COME FUNZIONANO LE INDAGINI COL DATABASE DI GOOGLE

Secondo Google, negli Usa la polizia federale ha iniziato a chiedere dati dal 2016. Anche se questa nuova procedura è stata resa nota solo lo scorso anno. Questo documento per esempio ne certifica l’uso nel 2018 da parte dell’Fbi. Nel 2019, ha detto un dipendente di Google alla testata statunitense, la società ha ricevuto fino a 180 richieste in una settimana. Google da parte sua ha rifiutato di confermare numeri precisi. Sensorvault, secondo i dipendenti di Google, include registrazioni dettagliate sulla posizione GPS che coinvolgono non meno di centinaia di milioni di dispositivi in ​​tutto il mondo e risalgono a quasi un decennio. Google raccoglie informazioni da Sensorvault sui dispositivi che erano presenti nel luogo richiesto. Li etichetta con numeri di identificazione anonimi, e gli investigatori li setacciano per vedere se appaiono pertinenti al crimine. Una volta che restringono il campo a pochi dispositivi che ritengono appartengano a sospetti o testimoni, Google rivela i nomi degli utenti e altre informazioni.

ECCO PERCHE’ SERVE UNA REGOLAMENTAZIONE

E dato che nessuno cancella quei dati, ecco che vengono allora usati per tentare di dare una risposta non solo ai crimini recenti ma anche ai “cold case”, cioè ai casi rimasti aperti, senza un colpevole. Eppure, lo sappiamo bene, le norme sulla privacy richiederebbero (almeno qui da noi) che i registri dopo tot vengano cancellati. In alternativa, chi li detiene dovrebbe avvertire annualmente gli interessati di esserne ancora in possesso, con la facoltà di consultarli. In più, secondo diversi dipendenti di Google, il database Sensorvault non è stato progettato per le esigenze delle forze dell’ordine, sollevando dunque dubbi sulla sua accuratezza. Ecco perché, come aveva fatto notare a Start Magazine Stefano Quintarelli, imprenditore ma soprattutto informatico, tra i primi firmatari durante la scorsa legislatura di un ddl che regolamentasse le intercettazioni via malware, è necessario intervenire al più presto normando il settore. A rischio c’è ben più della privacy di ciascuno di noi: anche la possibilità di finire indagati senza avere colpe.

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