Le mascherine che i cittadini cinesi sono costretti a indossare per difendersi dal Coronavirus potrebbero far slittare il grande programma denominato “Sistema di Credito Sociale” il cui completamento era previsto in tutto il territorio della Cina entro il
2020.
Le mascherine sul volto impediscono, ai cellulari delle persone e alle videocamere di Stato, il riconoscimento facciale e dunque la possibilità di dare una identità ai cittadini oggetto di monitoraggio a 360 gradi da parte delle autorità.
Non è ancora chiaro se i decisori politici si limiteranno a rinviare il gigantesco programma di sorveglianza di massa al 2021 o se il dramma sanitario che il Paese sta vivendo non spinga i vertici del Partito ad una riflessione politica e culturale più profonda sul progetto di sorveglianza di massa.
La realtà di questi giorni (ed in particolare la sorte del medico Li Wen Jiang) dimostra che punire o premiare il comportamento dei cittadini cinesi sulla base di punteggi forniti da tecnologie invasive del 5G (e non solo) nei luoghi di lavoro, nelle strade, nelle abitazioni non è solo un attentato alla libertà delle persone e al loro sacrosanto diritto alla privacy.
C’è anche un enorme rischio di provocare gravi ritardi e inefficienze: da un lato si reprime un medico che sente il dovere deontologico di segnalare su un social una misteriosa malattia contagiosa, dall’altro se il riconoscimento facciale non funziona (in questo caso per le mascherine contro il Coronavirus) si bloccano moltissime funzioni e servizi pubblici essenziali: dalle pratiche amministrative alla sicurezza, dalle prenotazioni di visite mediche all’ accesso ai trasporti, ecc.
Il totalitarismo tecnologico ed automatizzato – esaltato dal regime come grande opera di ingegneria di controllo sociale fondato sui Big Data e sull’Intelligenza Artificiale – può trasformarsi in un vero e proprio boomerang.
Nelle società democratiche e aperte esistono per fortuna una pluralità di vie di uscita, ma il binomio tecnocrazia-pensiero unico potrebbe avere effetti devastanti.
L’esigenza di limitare l’onnipresenza delle aziende cinesi della ICT non è dunque – come si vorrebbe far credere – un tema di politica commerciale o un capriccio di Donald Trump, significa agire in coerenza con la grande tradizione del pensiero democratico che pone al centro il rispetto della persona e delle sue libere scelte di vita.
Non è il Governo che ti osserva, ti giudica, ti punisce e ti premia a seconda dei tuoi comportamenti, sei tu cittadino che osservi e giudichi il Governo e premi o punisci i governanti con il voto libero perché segreto.
Inutile nasconderlo, la distanza culturale con la Cina è grande, ma non incolmabile. Anzi, questo è il momento di dialogare seriamente con la leadership cinese.
50 anni fa dopo le prime aperture di Richard Nixon su Foreign Affairs del 1966 negli anni successivi il Ping Pong servi’ a rompere il ghiaccio.
Oggi proprio nel momento in cui l’Italia e il mondo sviluppano la massima solidarietà e cooperazione sanitaria
per combattere l’epidemia è anche il momento di inventare e promuovere un nuovo “Ping Pong” che inneschi un dialogo culturale e politico senza ipocrisie.
Le mascherine hanno messo in evidenza quanto – al di là delle apparenze – una società tecnocratica e dirigista sia vulnerabile.
Certo per promuovere il dialogo bilaterale e multilaterale bisogna crederci, avere solide basi culturali e dimostrare affidabilità.
Due giorni fa Raffaele Volpi ha segnalato come l’allarme unanime del Copasir sul 5G made in China sia rimasto sinora sostanzialmente inascoltato in Parlamento e dall’esecutivo. Non è bello un paese che non si fida del.proprio Comitato Parlamentare per la Sicurezza della Repubblica.
Tutti sanno quanto sia penetrante, diffusa e influente la presenza delle tecnologie cinesi nel nostro Paese. Nessuno chiede scorciatoie o soluzioni irragionevoli, ma difendere i valori fondanti della Repubblica e della cultura democratica è un dovere a cui la classe politica non può sottrarsi.