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Semiconduttori

Vi spiego la guerra Usa-Cina sui semiconduttori

Sui semiconduttori si gioca la competizione strategica tra Stati Uniti e Cina. Estratto dalla proposta per un piano nazionale per i chip di Gianclaudio Torlizzi.

Data la rilevanza strategica il comparto dei semiconduttori ricopre un ruolo chiave all’interno della competizione strategica tra Stati Uniti e Cina, come è parso evidente dal vertice del G7 di maggio, in cui è stata ribadita l’intenzione delle nazioni avanzate di “ridurre il rischio” dall’ex Celeste Impero. Già nel 2018, gli Stati Uniti avevano imposto una tariffa del 25% sulle importazioni di chip prodotti in Cina, a seguito della quale erano riusciti a ridurre del 72% l’import di chip dall’ex Celeste Impero. È inoltre evidente, come l’intento del CHIPS and Science Act sia anche quello di limitare lo sviluppo dell’industria cinese dei semiconduttori, il cui obiettivo è quello di arrivare alla leadership nei settori chiave dell’Intelligenza Artificiale e automotive. Un salto di qualità importante avviene però nell’ottobre 2022 con l’imposizione da parte di Washington di restrizioni all’export di semiconduttori destinati alle applicazioni di Intelligenza Artificiale. Provvedimento che verrà poi ulteriormente potenziato nell’ottobre 2023.

Prima che l’emergenza pandemica evidenziasse le lacune sul fronte della capacità produttiva di semiconduttori, gli Stati Uniti avevano lanciato una serie di iniziative per garantire la produzione interna di chip, come il programma Trusted Foundry lanciato nel 2023 dal Dipartimento della Difesa per garantire una base di produzione nazionale sicura per i chip necessari alle applicazioni militari. Il programma ora comprende più di 75 realtà industriali: dai produttori di dispositivi ad aziende specializzate nei test e nell’imballaggio. I livelli di fabbisogno di chip per la Difesa, tuttavia, rappresenta una piccola frazione della domanda generata dal mercato commerciale, rendendo la fornitura di piccoli lotti per le Forze Armate poco attraente per molti produttori commerciali. Per fare un esempio, nel 2021, le fonderie con sede negli Stati Uniti producevano circa il 2% dei dispositivi utilizzati nei sistemi militari la cui richiesta però è prevista in forte crescita. La domanda di semiconduttori da parte dei governi in particolare, comprendendo l’uso militare, rappresenta solo il 2% del mercato globale, ma crescerà a un tasso dell’11% tra il 2022 e il 2027 con un aumento previsto delle dimensioni del mercato di 5,8 miliardi di dollari, stando alla Semiconductor Industry Association.

La strada da percorrere è però ancora lunga. Secondo uno studio pubblicato dal Center for Strategic International Studies (CSIS), la Cina è il paese che investe maggiormente in politica industriale (agevolazioni fiscali, sussidi, credito a tasso inferiore rispetto a quello di mercato, ecc): l’1,73% del PIL seguita dalla Corea del Sud (0,67% del PIL). Per contro, gli Stati Uniti hanno speso solo lo 0,39% del Pil. Le aziende quotate in Cina hanno registrato sussidi per 281 miliardi di yuan nel 2019 (41 miliardi di dollari). Dall’analisi sui sussidi alle imprese quotate emerge come i maggiori beneficiari dei sussidi siano le aziende di software, hardware, automobili, trasporti e semiconduttori. Non sorprende dunque se la quota statunitense della produzione globale di semiconduttori sia dunque scesa dal 37% nel 1990 al 12% nel 2020, mentre la Cina sia cresciuta al 15% nel 2020 con l’obiettivo di arrivare al 24% entro il 2030.

La Cina dispone da tempo di un piano di politica industriale per sostenere la nascente industria dei chip

L’accelerazione si verifica nel 2014 quando il governo di Pechino pubblica le linee guida per la promozione dei circuiti integrati nazionali inserendole, successivamente, nel piano Made in China 2025 in cui è stato dato come obiettivo il 70% di autosufficienza entro il 2025.

Al centro della politica industriale cinese dei semiconduttori c’è il National Integrated Circuit Development and Investment Fund istituito nel 2014 con 21 miliardi di dollari di finanziamenti statali, rinnovati nel 2019 per un secondo round di finanziamenti statali che hanno superato i 35 miliardi di dollari. Inoltre, il governo cinese ha dato il via a oltre di 15 fondi gestiti a livello locale per un totale di 25 miliardi di dollari. Sommato al Fondo nazionale, gli investimenti complessivi ammontano a 73 miliardi di dollari: una cifra che non ha eguali in nessun Paese e che comunque non tiene conto dei contributi pubblici, della partecipazione diretta nel capitale azionario e dei prestiti a basso interesse che superano da soli i 50 miliardi di dollari, nonché dell’ultimo piano da 143 miliardi di dollari annunciato nel dicembre 2022. L’obiettivo di Pechino in particolare è creare un cluster di aziende nel comparto chip del valore di 1 miliardo di yuan entro il 2035.

I sussidi e le restrizioni sono nel complesso necessari per livellare il terreno di gioco con l’Asia

Se si considera che attualmente produrre chip negli Stati Uniti risulti più costoso per circa il 40-50% rispetto all’Asia, secondo le stime di JP Morgan. I risultati negli Usa sono già evidenti: nei prossimi 10 anni verranno effettuati oltre 215 miliardi di dollari di investimenti privati per la produzione statunitense di semiconduttori in 20 Stati. Gli Stati Uniti sono ancora leader nella quota di mercato globale, nella progettazione di chip e nelle apparecchiature per la produzione di semiconduttori, ma sono in ritardo nella fabbricazione di chip e nelle capacità di produzione interna. L’industria statunitense dei semiconduttori presenta lacune significative non solo nella capacità onshore di realizzare i dispositivi più avanzati a 7 e 5 nanometri (nm) ma anche nell’assemblaggio, test e imballaggio in outsourcing (OSAT).

É generalmente condivisa l’idea di come la Cina sia almeno due generazioni indietro rispetto agli Stati Uniti sul piano tecnologico.

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