skip to Main Content

Changxin

Chip Act Ue? Molto cip

"In Europa mancano i chip per il settore auto, ma il piano Ue per produrne il doppio è un pranzo di nozze con i fichi secchi". L'articolo di Tino Oldani per Italia Oggi

Il piano della Commissione Ue per produrre più chip in Europa è stato accolto con diffuso scetticismo. L’obiettivo del piano, chiamato European Chips Act, è di «rendere l’Europa un leader in questo mercato globale» (Ursula Von der Leyen dixit), al fine di consentire all’industria europea, auto in testa, di non dipendere più dalle forniture di Taiwan, Cina e Corea del Sud, come avviene da anni. Ma, nelle analisi e nei commenti del giorno dopo, gli esperti del settore escludono all’unisono che il piano Ue possa raggiungere gli obiettivi dichiarati. Al massimo, c’è chi, come l’esperto del settore Alberto Prina Cerai, ammette che “dopo tanti anni, è un passo avanti”. Ma niente di più.

La prima delusione è dovuta all’impegno finanziario Ue: appena 43 miliardi di investimenti distribuiti in otto anni, da qui al 2030. Soldi pubblici (Ue e nazionali) e privati (a supporto azionario e leva), ma non tutti freschi, in quanto comprensivi dei fondi già stanziati, e non ancora spesi, per l’iniziativa «Chips for Europe», mirata a sviluppare la ricerca nel settore. Il confronto con la concorrenza mondiale ricorda un pranzo di nozze con i fichi secchi: gli Stati Uniti hanno già messo in campo un piano di 52 miliardi di dollari, tutti fondi federali, per potenziare le loro fabbriche di chip e attirarne di nuove sul territorio americano. La Cina ha investito con lo stesso obiettivo 150 miliardi di dollari tra il 2015 e il 2020, e la Corea del Sud ne sta investendo 450 entro il 2030. Quanto a Taiwan, è già leader mondiale del settore, l’unico in grado di produrre i chip più piccoli e perciò più potenti e pregiati, quelli sotto i cinque nanometri, mentre in Europa, secondo uno studio del think-tank Bruegel, si fabbricano chip da 22 nanometri in su, i più arretrati.

Con i 43 miliardi di euro messi in programma fino al 2030, l’Ue si propone di produrre chip pari al 20% del totale mondiale, raddoppiando la propria quota attuale, di circa il 10%. Ma anche qui, gli scettici ricordano che questo era esattamente lo stesso obiettivo di un piano analogo, lanciato nel 2013 dalla Commissione Ue, guidata allora da José Barroso. Un piano del gambero, visto che l’Europa negli anni Novanta produceva il 20% dei semiconduttori su scala mondiale e dal 2013 è tornata indietro. Oggi il 60% della produzione mondiale è fatta da tre paesi (Taiwan, Cina e Corea del Sud), si sale all’80% se si aggiunge il Giappone, mentre Usa ed Europa si dividono in parti eguali il restante 20%. Da qui le gravi difficoltà incontrate dalle industrie Usa e Ue, auto in testa, nella catena di approvvigionamento dei chip durante la pandemia, ma soprattutto ora, mentre si parla di ripresa.

Attualmente, la componente elettronica rappresenta il 40% del valore nella produzione di auto, quota che, secondo Deloitte, salirà del 15% l’anno fino al 2026. Quanto basta per fare dire a Thierry Breton, commissario Ue all’Interno, che se Taiwan dovesse sospendere le esportazioni di chip in Europa per ragioni geopolitiche, le fabbriche europee di prodotti basati sui semiconduttori, auto in testa, chiuderebbero «dopo tre settimane». E l’auto rappresenta in Europa il 6% della forza lavoro e il 7% del pil. Per questo, non può stupire che tutte le case automobilistiche Ue, costrette negli ultimi mesi a rallentare o sospendere le produzioni, abbiano fatto pressioni sulla Commissione Ue per incentivare la produzione di chip in Europa, anche mediante l’alleanza con i paesi e le aziende più agguerrite del mondo.

In proposito, Politico.Eu ricorda che il commissario Breton ha proposto nell’ultimo anno ai tre grandi produttori di semiconduttori (Tmsc, Samsung e Intel) di impiantare in Europa una «mega fab» di microchip di ultima generazione (fino a 5 nanometri). Il risultato? La taiwanese Tsmc non ha rilasciato alcun annuncio sugli investimenti europei, mentre ha confermato quelli in Arizona (12 miliardi di dollari), in Giappone (7 miliardi di dollari) e Cina (2,8 miliardi di dollari). Samsung non ha neppure risposto. Mentre Intel, tramite il ceo Pat Gelsinger, si è dichiarata disponibile a costruire una mega fabbrica in Europa, a patto che sia assicurato il sostegno con fondi pubblici. Un aspetto, quest’ultimo, per nulla secondario.

Costruire una mega fab di chip in Europa richiede almeno 4-5 anni, con un investimento molto più oneroso sul piano finanziario rispetto ad analoghe iniziative in Cina, Taiwan e Corea del Sud. Un maggior costo che gli esperti valutano di circa 11 miliardi di euro, somma che un investitore non europeo potrebbe chiedere come sussidio pubblico all’Ue, come condizione inderogabile. Non a caso l’Intel ha dichiarato: «Ci aspettiamo che l’Ue Chips Act faciliterà i nostri piani» Una prospettiva che, però, appare ostacolata dalle norme Ue sulla concorrenza, che vietano gli aiuti di Stato.

Questo sembra spiegare la presenza di Margrethe Vestager, responsabile dell’Antitrust Ue, alla conferenza di presentazione dell’European Chips Act, dove ha annunciato un nuovo corso Ue: meno vincoli antitrust sul finanziamenti pubblici per convincere i big extraeuropei a creare fabbriche di chip in Europa, a patto però che rispettino alcuni parametri tecnologici nelle produzioni, quali ad esempio «primo nel suo genere», nel senso che si tratta di un chip nuovo per l’Europa, anche se non lo è a livello globale. Una flessibilità per ora dichiarata, ma non codificata, accolta con scetticismo da Politico: «I finanziamenti pubblici necessari a imprese come Tsmc e Intel, che ammontano a miliardi, potrebbero incontrare ostacoli a Bruxelles dai funzionari della concorrenza, gli stessi che hanno ucciso molti sforzi di aiuti di Stato negli ultimi decenni».

 

Articolo pubblicato su ItaliaOggi

Back To Top