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Chi controlla i droni armati?

L’incremento esponenziale dell’utilizzo dei droni armati allarma anche i sostenitori: visti i numeri elevati delle operazioni compiute, c'è la necessità di garantire maggiore controllo e trasparenza. L'analisi di Yeshe Carta per Affari Internazionali

È di qualche settimana fa la notizia che l’Italia si doterà di droni armati. Nel documento programmatico pluriennale 2021, il ministero della Difesa annuncia con un inglesismo – facendo infatti riferimento “all’adeguamento dei payload” – che i droni MQ-9, più comunemente conosciuti come droni Reaper (“angeli della morte”), saranno armati.

Così anche i droni nostrani completeranno il ciclo, passando da “occhio” (strumento di sorveglianza e ricognizione) ad un vero e proprio strumento di difesa – dice il ministero – e di attacco, si potrebbe aggiungere.

LA STRAGE DEGLI INNOCENTI

Se ci fosse stato dibattito pubblico, si sarebbe potuto parlare di “bad timing”. È infatti altrettanto recente l’ammissione Usa circa il “tragico errore” commesso in Afghanistan alla vigilia del ritiro statunitense: l’attacco condotto per mezzo di un drone Reaper a Kabul il 29 agosto, non ha colpito membri dell’Isis-K, ma dieci civili, tra cui 7 bambini.

Il generale statunitense Frank McKenzie, ha offerto le sue più sincere scuse, ricostruendo gli spostamenti dagli occupanti del veicolo colpito che, durante le otto ore di sorveglianza, sembravano confermare l’intelligence raccolta. All’interno di quella Toyota bianca però, non si stava preparando un attentato. Le taniche e borse che, ad interpretazione dell’intelligence Usa erano pieni di esplosivo, contenevano in realtà acqua.

QUESTIONE DI TEMPO O DI CATTIVA COSCIENZA?

Posto di fronte alla domanda su cosa “l’incidente” dica sull’affidabilità dei droni in futuro, il generale sottolinea le dinamiche particolari dell’operazione: a pochi giorni dalla strage compiuta all’aeroporto di Kabul, l’attacco, vista la presunta minaccia imminente di un ulteriore attentato, si configurava come azione difensiva. Al contrario, continua McKenzie, le operazioni future – così come quelle passate, si potrebbe aggiungere – non saranno vincolate da limiti temporali, permettendo quindi un’analisi più accurata dei cosiddetti “patterns of life” (modelli di vita) per cui gli obiettivi sono scelti successivamente ad un periodo di sorveglianza e analisi comportamentale.

Non è questa la sede per una riflessione approfondita sul significato più ampio dell’esponenziale utilizzo dei droni nei teatri di guerra. Sicuramente però, visti gli sviluppi nostrani, è il caso d’indagare sulla loro presunta precisione chirurgica.

Nel corso degli ultimi vent’anni i droni sono stati esaltati, definiti come “arma umanitaria per eccellenza”, e al contempo potenziati in velocità, equipaggiamento e resistenza. L’enfasi posta sulla precisione chirurgica dei droni ha fatto sì che si sorvolasse spesso su un aspetto cruciale: i droni sono un asset – la precisione delle operazioni condotte per mezzo di droni armati, i cosiddetti omicidi mirati, dipende dall’accuratezza dell’intelligence raccolta prima di sganciare la bomba sull’obiettivo.

SQUID GAME ALL’AMERICANA

A questo proposito, si possono identificare due principali tecniche finalizzate dagli Usa (ed in particolare dall’amministrazione Obama): personality strike e signature strike. Per quanto riguarda i primi, l’identità dell’obiettivo è nota – un esempio è l’omicidio del generale iraniano Qassem Soleimani in Iraq per mano dell’amministrazione Trump nel gennaio 2020. Nel caso dei signature strikes, invece, l’identità del bersaglio è sconosciuta: l’individuo è infatti identificato sulla base dell’analisi comportamentale – i cosiddetti “patterns of life” a cui si riferisce il generale McKenzie.

Senza considerare gli effetti sulla popolazione sottoposta a continua sorveglianza, questa metodologia per cui sarebbe possibile identificare un terrorista sulla base dell’individuazione di “comportamenti sospetti”, è stata messa in discussione da molti, incluso l’Onu.

Secondo Hina Rabbani Khar, già ministra degli esteri del Pakistan che a lungo si è opposta all’utilizzo dei droni armati, con questa tecnica si finisce per considerare qualunque uomo di una determinata fascia d’età come un potenziale terrorista. Le problematiche sono ben esemplificate da un attacco condotto nel marzo 2011, nella regione del Waziristan (Pakistan), che risultava nella morte di circa 40 uomini: quello che si riteneva un gruppo di Talebani, emergeva poi essere un jirga – incontro tradizionale tra esponenti di diversi clan – volto alla risoluzione di una disputa.

IL NODO TRASPARENZA

L’Afghanistan, in particolare, ha subito una progressiva “dronizzazione” dell’intervento statunitense. Nel 2009, il dispiegamento di 30mila nuovi soldati deciso da Obama nel quadro del cosiddetto ‘surge’ comportava un considerabile aumento delle vittime Usa – comunque minimo rispetto al numero dei morti civili afghani. Messo alle strette dall’opinione pubblica americana, Obama ha puntato sempre di più sui Reapers, il cui utilizzo, dichiarava, “stava salvando vite umane”. Ma quali vite umane, verrebbe da chiedersi? Durante l’operazione Haymaker, svoltasi tra il gennaio 2012 e il febbraio 2013 in Afghanistan, ad esempio, il 90% delle vittime causate dagli attacchi droni erano civili.

La mancanza di trasparenza circa l’utilizzo di droni armati nei teatri di guerra è preoccupante: non esistono numeri certi circa il numero di operazioni condotte, così come mancano dati precisi sulla percentuale di “danni collaterali”. Tra questi anche Giovanni Lo Porto, giovane cooperante italiano che, insieme al cittadino americano Warren Weinstein, rimase ucciso nel 2015 durante un’operazione nel Waziristan contro un compound di Al Qaeda, che teneva in ostaggio i due da diversi anni.

L’incremento esponenziale dell’utilizzo dei droni armati allarma anche i sostenitori: secondo l’esperta Sixta Rinehart, che cita i numeri “astronomici” delle operazioni compiute, vi è come minimo la necessità di garantire maggiore controllo e trasparenza.

Queste sono sicuramente osservazioni importanti che – insieme all’obbligo di stimolare un maggiore dibattito pubblico sulla questione – l’Italia dovrà tenere a mente mentre si accinge ad entrare nel mondo della “remote warfare”.

 

Articolo pubblicato su affarinternazionali.it

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