Il caso Foodora vive un colpo di scena che apre a orizzonti completamente nuovi per la gig economy. Come noto, venerdì scorso, la Corte d’appello di Torino ha ribaltato il pronunciamento in primo grado del Tribunale del lavoro: Foodora, pur utilizzando il lavoro a chiamata, non può trattare i suoi addetti alle consegne – meglio noti come riders – come lavoratori autonomi; pur non essendovi obbligo di effettuare la prestazione lavorativa, i riders sono lavoratori dipendenti.
I giudici hanno infatti sancito il diritto dei ricorrenti ad avere una somma calcolata sulla retribuzione stabilita per i dipendenti del contratto collettivo logistica-trasporto merci. Inoltre, l’azienda tedesca – che nel frattempo ha lasciato l’Italia – dovrà riconoscere ai cinque fattorini un terzo delle spese di lite, che complessivamente tra primo e secondo grado ammontano a poco meno di 30 mila euro.
La corte d’appello di Torino si è limitata ad applicare la legge, non vi è infatti nessun elemento di creatività in questa sentenza se non il richiamo diretto al dlgs 81/2015 – meglio noto come Jobs Act – che stabilisce che “a far data dal 1° gennaio 2016, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”.
Vedremo che iter giuridico farà il caso, se finirà qui o se arriverà in terzo grado di giudizio. Nel frattempo Foodora ha lasciato il nostro Paese – la filiale italiana è stata assorbita da Glovo che risponderà degli esiti di questa sentenza – e per la prima volta vi è un pronunciamento forte della magistratura circa le nuove forme di lavoro e la subordinazione del rapporto: non può, del resto, essere tutto lavoro autonomo perché nuovo e non tradizionale.
È tuttavia inevitabile fare almeno tre considerazioni importanti. In primis, è il Jobs Act – la legge che il Ministro del lavoro Luigi Di Maio ha cercato di smontare col suo decreto dignità – a fare da riferimento per questo caso importante, non nei numeri – i riders sono un fenomeno circoscritto – ma nella sostanza, trattandosi di una forma di lavoro che prenderà sempre più piede. Questo per dire che sarebbe ora che i governi che si alternano smettessero di demolire, in particolare in materia di lavoro, quanto fatto dai predecessori; ciò non solo non serve ma oltretutto è dannoso per chi – vedi imprese – poi tale norme le deve applicare spesso e volentieri non capendoci più nulla.
In secondo luogo – e questo è forse l’aspetto più interessante – la contrattazione collettiva arriva nel cuore della gig economy: la sentenza offre su un piatto d’argento la possibilità alla rappresentanza del lavoro di scrivere una piattaforma di contratto collettivo per stabilire regole e retribuzioni. Può essere questa un’occasione importante per il sindacato per iniziare a intercettare sensibilmente le nuove forme di lavoro. Ad ogni modo, sono le imprese ad avere più bisogno a questo punto di scrivere regole chiare onde evitare di ritrovarsi travolte da un progressivo contenzioso che chieda conto dal 1° gennaio 2016 ad oggi.
Terzo ed ultimo punto: questa sentenza può segnare l’inizio di una nuova vita per i cosiddetti nuovi lavori. La tendenza ad assegnare le nuove forme al lavoro autonomo è sempre stata preponderante. Oggi però la magistratura rimanda un caso significativo al lavoro subordinato. Ciò vuol dire che la galassia dei nuovi lavori inizia concretamente a fare i conti – oltre che con la contrattazione collettiva – anche con aspetti tipici del lavoro tradizionale quali, in particolare, previdenza e assistenza. Se si avrà la capacità di andare a fondo del caso, è questo un punto di non ritorno.