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Foodora

Che cosa succederà dopo la sentenza sul caso Foodora

L'approfondimento di Giuseppe Sabella dopo la decisione della Corte di Appello di Torino sul caso Foodora

 

Il caso Foodora vive un colpo di scena che apre a orizzonti completamente nuovi per la gig economy. Come noto, venerdì scorso, la Corte d’appello di Torino ha ribaltato il pronunciamento in primo grado del Tribunale del lavoro: Foodora, pur utilizzando il lavoro a chiamata, non può trattare i suoi addetti alle consegne – meglio noti come riders – come lavoratori autonomi; pur non essendovi obbligo di effettuare la prestazione lavorativa, i riders sono lavoratori dipendenti.

I giudici hanno infatti sancito il diritto dei ricorrenti ad avere una somma calcolata sulla retribuzione stabilita per i dipendenti del contratto collettivo logistica-trasporto merci. Inoltre, l’azienda tedesca – che nel frattempo ha lasciato l’Italia – dovrà riconoscere ai cinque fattorini un terzo delle spese di lite, che complessivamente tra primo e secondo grado ammontano a poco meno di 30 mila euro.

La corte d’appello di Torino si è limitata ad applicare la legge, non vi è infatti nessun elemento di creatività in questa sentenza se non il richiamo diretto al dlgs 81/2015 – meglio noto come Jobs Act – che stabilisce che “a far data dal 1° gennaio 2016, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”.

Vedremo che iter giuridico farà il caso, se finirà qui o se arriverà in terzo grado di giudizio. Nel frattempo Foodora ha lasciato il nostro Paese – la filiale italiana è stata assorbita da Glovo che risponderà degli esiti di questa sentenza – e per la prima volta vi è un pronunciamento forte della magistratura circa le nuove forme di lavoro e la subordinazione del rapporto: non può, del resto, essere tutto lavoro autonomo perché nuovo e non tradizionale.

È tuttavia inevitabile fare almeno tre considerazioni importanti. In primis, è il Jobs Act – la legge che il Ministro del lavoro Luigi Di Maio ha cercato di smontare col suo decreto dignità – a fare da riferimento per questo caso importante, non nei numeri – i riders sono un fenomeno circoscritto – ma nella sostanza, trattandosi di una forma di lavoro che prenderà sempre più piede. Questo per dire che sarebbe ora che i governi che si alternano smettessero di demolire, in particolare in materia di lavoro, quanto fatto dai predecessori; ciò non solo non serve ma oltretutto è dannoso per chi – vedi imprese – poi tale norme le deve applicare spesso e volentieri non capendoci più nulla.

In secondo luogo – e questo è forse l’aspetto più interessante – la contrattazione collettiva arriva nel cuore della gig economy: la sentenza offre su un piatto d’argento la possibilità alla rappresentanza del lavoro di scrivere una piattaforma di contratto collettivo per stabilire regole e retribuzioni. Può essere questa un’occasione importante per il sindacato per iniziare a intercettare sensibilmente le nuove forme di lavoro. Ad ogni modo, sono le imprese ad avere più bisogno a questo punto di scrivere regole chiare onde evitare di ritrovarsi travolte da un progressivo contenzioso che chieda conto dal 1° gennaio 2016 ad oggi.

Terzo ed ultimo punto: questa sentenza può segnare l’inizio di una nuova vita per i cosiddetti nuovi lavori. La tendenza ad assegnare le nuove forme al lavoro autonomo è sempre stata preponderante. Oggi però la magistratura rimanda un caso significativo al lavoro subordinato. Ciò vuol dire che la galassia dei nuovi lavori inizia concretamente a fare i conti – oltre che con la contrattazione collettiva – anche con aspetti tipici del lavoro tradizionale quali, in particolare, previdenza e assistenza. Se si avrà la capacità di andare a fondo del caso, è questo un punto di non ritorno.

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