“Domenica d’agosto che caldo fa”, cantava Bobby Solo nel 1969. Ma nonostante il caldo Agcom nei scorsi aggiorni ha approvato gli esiti della consultazione sulle Content Delivery Network (delibera 207/25/CONS), riconducendo le CDN alla definizione di rete di comunicazione elettronica ai sensi dell’EECC e quindi al regime di autorizzazione generale. Nella delibera l’Autorità ribadisce che non introduce network fee né interviene sul mercato dell’interconnessione; il provvedimento è trasmesso al MIMIT “per i seguiti di competenza”, senza obblighi o scadenze per un regolamento attuativo. In altre parole: quadro giuridico definito, implementazione da capire.
CHE COSA SONO LE CDN
Le Content Delivery Network sono reti di server distribuiti che replicano e consegnano contenuti digitali — video, pagine web, software — da nodi geograficamente vicini all’utente, riducendo latenza, congestione e costi di trasporto. Il nodo della polemica nasce quando le stesse infrastrutture sono utilizzate in modalità “mixed use”, cioè per attività di caching e calcolo tipiche del cloud insieme alla consegna di contenuti per più soggetti. In questi casi, se la componente di trasporto viene confusa con “servizio di comunicazione elettronica” in senso telco, la regolazione rischia di travolgere anche funzioni cloud, introducendo oneri, arbitrati e incertezza contrattuale che nulla hanno a che fare con la mera distribuzione dei dati.
IL QUADRO DEL SOLE 24 ORE
A essere coinvolto è l’intero ecosistema tlc-internet, ha sottolineato oggi Il Sole 24 ore: “Alla consultazione, dividendosi con tesi opposte, hanno partecipato tra gli altri Google, Meta, Amazon (nella doppia veste di Amazon Digital per il servizio Prime video) e di Amazon Web Services, Microsoft, Netflix, Akamai, Dazn e gli operatori Tim, Vodafone, WindTre, Fibercop, Rai Way, Retelit, Lepida, oltre alle associazioni Aiip, Anitec-Assinform, Asstel, CCIA, Cispe, Crtv”.
L’IMPOSTAZIONE DELL’AGCOM
Ha spiegato il Sole: “Secondo l’analisi conclusa dall’Autorità guidata da Giacomo Lasorella (nella foto), le Cdn sono a tutti gli effetti un tipo specifico di rete, perché adatte a trasmettere segnali a mezzo di fibre ottiche. Di qui l’obbligo di conseguire un’autorizzazione generale, sulla scia di quanto nel 2021 era stato richiesto eccezionalmente a Dazn, dopo i disservizi per le prime partite di serie A trasmesse in streaming. L’Authority ritiene anche che ci siano i presupposti perché il ministero delle Imprese e del made in Italy emani uno specifico regolamento su questo settore. A ogni modo l’Agcom respinge le critiche di chi intravede in questa delibera l’anticamera del “fair share”, il contributo temutissimo dalle Big Tech e segnalato anche dall’amministrazione Trump come una potenziale pericolosa barriera regolamentare”.
DA DOVE NASCE IL DIBATTITO SUL FAI SHARE
Il tema è il “fair share”: l’idea, sostenuta da alcuni grandi operatori, che i principali generatori di traffico debbano contribuire ai costi di rete. Il dibattito europeo si è ravvivato con il cantiere del Digital Networks Act (DNA), dove si discute anche di un meccanismo di risoluzione delle controversie sull’interconnessione. BEREC negli anni ha escluso un fallimento di mercato nell’IP interconnection, ma la discussione politica continua, specie dopo l’ondata di streaming e servizi cloud.
LA SMENTITA UFFICIALE E IL NODO SOSTANZIALE
Il commissario Massimiliano Capitanio ha assicurato che la delibera “non introduce alcun obbligo di fair share”. Tuttavia, gli stessi documenti regolatori riconoscono che l’estensione del perimetro può spingere gli operatori a rivolgersi all’Autorità per controversie con CAP/CDN: è qui che molti osservatori intravedono un inevitabile rischio di pedaggio “per via regolatoria”, pur senza chiamarlo così.
GLI STUDI: L’AVVERTIMENTO DI DAVID ABECASSIS
David Abecassis di Analysys Mason ha spiegato perché l’estensione del quadro telco a cloud e CDN non sia un buon fit: aumenta i costi di compliance, frammenta il mercato e, soprattutto, trascina l’interconnessione IP in un’area dove non c’è evidenza di problemi concorrenziali, con il pericolo che l’arbitrato diventi un modo per imporre oneri ai fornitori di contenuti e di cloud. Il risultato atteso sono prezzi più alti e minori incentivi a investire in edge e caching, cioè proprio le tecnologie che riducono costi e congestione.
LA TESI DI AWS
Nella discussione europea sul DNA, Bob Kimball, Chief Regulatory Officer di AWS – intervenuto su M-Lex e sul blog aziendale AboutAmazon.com – mette in guardia dal creare un meccanismo di arbitrato sull’interconnessione che diventerebbe, di fatto, un nuovo varco per network fees, alterando un sistema che oggi funziona su peering e accordi commerciali. È una posizione che trova eco in analisi indipendenti e nei dossier parlamentari: introdurre arbitrati obbligatori tra ISP, CAP e CDN rischia di consegnare agli incumbent uno strumento per forzare pagamenti e alzare i costi per servizi cloud, SaaS e, a cascata, per le PMI europee.
QUINTARELLI E LA LOGICA CHE CACHING
Negativo anche il punto tecnico evocato da Stefano Quintarelli – imprenditore, esperto di informatica ed anche ex parlamentare – sul suo sito: le CDN avvicinano i contenuti agli utenti e fanno risparmiare banda a tutti. Trattarle come reti telco, imponendo adempimenti e potenziali contenziosi, irrigidisce un meccanismo di efficienza che ha reso Internet più rapido e meno costoso. È un alert coerente con gli esiti di più studi sull’interconnessione e con l’esperienza degli operatori neutrali degli IXP (Internet Exchange Point).
LE VOCI ITALIANE: LABRIOLA E ASSTEL
Nel dibattito pubblico, Pietro Labriola (TIM) – storico sponsor della fair share in cotnrapposizione alle Big Tech – ha sottolineato in alcune risposte su LinkedIn la necessità di regole “uguali per tutti” (senza però fare distinzioni tra aziende con modelli di business molto differenti) e della pianificazione dei volumi di traffico, mentre Asstel ha salutato positivamente la delibera come passo verso la parità regolamentare tra gli attori dell’ecosistema. Due sguardi che spiegano l’attrito industriale: livellare gli obblighi può sembrare equo, ma la simmetria formale tra servizi diversi per natura rischia di produrre asimmetrie sostanziali nei costi e nella concorrenza.
L’ACCORDO USA – UE E IL RISCHIO DI RITORSIONI
La tempistica dell’intervento Agcom è delicata. Il recente accordo commerciale annunciato in Scozia ha visto Washington rivendicare che l’Ue “non adotterà né manterrà network usage fees”. Rimettere in circolo il tema per via amministrativa rischia di incrinare il file transatlantico, trasformandolo in un problema politico per il Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, principalmente, e per Ursula von der Leyen—tanto più se Francia e Spagna dovessero riprendere il solco tracciato dall’Agcom. Il segnale che arriva agli Stati Uniti è infatti quantomeno ambiguo e può riflettersi su altri dossier economici ancora da chiarire, aggravando la psozione italiana ed europea.
PERCHE’ LE PAROLE CONTANO MENO DEGLI EFFETTI
Il commissario in quota Lega ed ex parlamentare Massimiliano Capitanio ha chiarito che non c’è fair share; e formalmente è così. Ma gli effetti regolatori contano più delle etichette: se l’estensione dell’autorizzazione sposta l’interconnessione nella sfera dell’arbitrato, allora l’“equo contributo” rientra dalla finestra come costo transazionale e come leva negoziale. È esattamente ciò che mettono in guardia Abecassis e le posizioni di settore critiche al Digital Networks Act (DNA) europeo: non si ripari ciò che non è rotto.
IL RUOLO DEL MIMIT E LA SOLUZIONE “ALL’ITALIANA”
Sembra però esserci – ma vista la pubblicazione agostana della delibera tutto è ancora da chiarire – un elemento decisivo: la delibera non impone al MIMIT di regolamentare (“non c’è obbligo senza sanzione”, il che rende la norma imperfetta) né stabilisce una deadline. È un invito ad agire “se e quando” il Ministero lo riterrà opportuno. La norma, quindi, esiste; l’applicazione può non arrivare. È il classico limbo che moltiplica l’incertezza per gli investimenti—il peggiore dei messaggi quando si valutano nuove cache, nuovi PoP e densificazione dell’edge.
CHIAREZZA, COERENZA E TEMPI CERTI
Il dossier CDN non è un tecnicismo: tocca qualità del servizio, prezzi finali per aziende e utenti, e credibilità regolatoria del Paese. Servono tre mosse: chiarezza istituzionale del MIMIT su tempi e modalità; coerenza europea evitando fughe in avanti nazionali fino al DNA; una valutazione d’impatto che misuri effetti su utenti e imprese. Senza queste ancore, il rischio è duplice: danni nell’asse Ue–Usa e capitali che scelgono mercati più prevedibili. In questo caso, come in altri, a scapito dell’Italia.