Nella sua prima audizione in Parlamento il capo di stato maggiore dell’esercito francese, generale Pierre Schill, ha messo in discussione la prosecuzione del programma franco-tedesco per la realizzazione di un carro armato destinato a diventare lo standard europeo, denominato Mgcs. Rilanciando l’idea di un progetto nazionale per sostituire gli attuali blindati obsoleti dell’Armèe de Terre.
Le parole di Schill non costituiscono un fulmine a ciel sereno. Mgcs segna il passo da tempo. Parigi e Berlino infatti non hanno la stessa visione strategica. I francesi puntano a un carro mobile e flessibile per adattarsi a scenari diversi, anche urbani. I tedeschi invece continuano a preferire un carro da guerra in campo aperto, quasi attendessero una invasione da Est come ai tempi della guerra fredda. Insomma, il carro armato europeo – uno degli esempi più citati nel processo di fusione dell’industria continentale degli armamenti – rischia di finire fuori strada. Anche per motivi politici.
La Germania, fin da quando è nata la grande coalizione nel 2017, ha ridotto enormemente il numero di Paesi nei quali è possibile esportare armamenti, anche in senso lato, limitando il loro numero alle democrazie non impegnate in conflitti. La Francia invece sta moltiplicando le sue vendite all’estero: è di pochi giorni fa la notizia dell’accordo con gli Emirati Arabi Uniti per forniture di aerei da caccia Rafale ed elicotteri da manovra Carical per l’equivalente di 17 miliardi di euro. A Parigi nemmeno si pensa alla eventualità che un grande progetto nel settore possa avere un mercato limitato all’Europa.
Le vicende del programma Mgcs – dal quale l’Italia, come la Polonia e il Regno Unito, è stata tenuta fuori nella fase iniziale e fondamentale – continuano a essere “calde” per l’Italia. In vista anche di ottenere risorse dal Fondo europeo per la difesa i due campioni franco-tedeschi del settore (la transalpina Nexter e la germanica Krauss Maffei Weigmann) avevano dato vita a una holding con sede nei Paesi Bassi: la Knds. E proprio questa holding avrebbe mostrato il suo interesse per acquisire la Oto Melara, che produce cannoni ed è controllata da Leonardo. Una mossa che ora potrebbe dimostrarsi azzardata, con l’eventualità di uno smembramento della holding.
In realtà, nonostante l’avvio in pompa magna di una politica comunitaria degli armamenti (di cui si sente un enorme bisogno), l’intero progetto per razionalizzare l’industria della difesa europea segna il passo. Prima di tutto per motivi economici. Di fronte alla creazione di un fondo straordinario europeo di 750 miliardi proprio la difesa ha registrato una pesante riduzione del budget. Da 13 a meno di otto miliardi è stata tagliata la dotazione del Fondo europeo tra il 2021 e il 2027. Da 6,5 a 1,5 miliardi falcidiata la disponibilità del programma di mobilità militare, per realizzare una rete infrastrutturale a valenza duale. Da dieci a cinque miliardi dimezzata la spesa prevista per le cooperazioni internazionali di pace. Esistono poi complicazioni politiche rilevanti che, unite a divergenze tecniche, stanno già mettendo in crisi un poco tutti i progetti franco-tedeschi destinati a costituire il nucleo dell’industria Ue: dal carrarmato appunto ai pattugliatori marittimi, dall’elicottero da combattimento al caccia di nuova generazione dal quale era ancora una volta stata tenuta fuori l’Italia. Della Germania – e della sua svolta “pacifista” – si è già detto. Peraltro, a non difendere l’entità precedentemente programmata dei fondi è stata soprattutto Berlino, che guida la Commissione europea, con Ursula von der Leyen, e controlla i principali “ministri” e alti funzionari di Bruxelles, direttamente o tramite Paesi amici. Il panorama politico francese non aiuta. Nei prossimi anni, quale che sia il risultato delle elezioni presidenziali previste per la primavera, sarà difficile non tenere conto del 30% dell’elettorato (quello accreditato di votare per l’estrema destra) che non si riconosce in posizioni europeiste, ha sempre contestato la difesa comune ed è confortato dal positivo andamento dell’industria nazionale degli armamenti. Le frizioni con Bruxelles sui diritti individuali hanno allontanato da una prospettiva europea anche la Polonia, il cui mercato della difesa è tra i più appetibili dell’Unione. La Spagna infine ha ridotto gli stanziamenti in maniera cospicua.
In questa fase, come si vede anche dalle vicende di Oto Melara e di Wass, il Paese che più rimane legato alla visione comune è l’Italia. Nonostante proceda a rallentatore anche il programma trans-nazionale nel quale è presente Leonardo. Si tratta dell’Eurodrone, il progetto per velivolo senza pilota in grado di volare a media altezza per lunga tempo cui partecipano anche Airbus (in rappresentanza di Germania e Spagna) e la francese Dassault Aviation. Partito con tre anni di ritardo, ha ricevuto da Bruxelles solo cento milioni di finanziamento, contro una spesa prevista per l’intero programma di oltre 7,5 miliardi. Inoltre, ancora non si sa ancora chi fornirà i motori se l’italiana Avio (controllata da General Electric) o la transalpina Safran. Una scelta sulla quale fonti sostengono che Roma abbia posto una sorta di aut aut minacciando il ritiro dal progetto. Sarà vero? Sembra poco probabile: l’industria della difesa italiana non è certo sostenuta dalla politica nazionale come quella francese.
Paradossale a esempio è il caso di due aziende praticamente a controllo pubblico (Leonardo e Fincantieri) che non sembrano procedere in sintonia. Non solo. La vendita agli Emirati Arabi Uniti degli elicotteri da manovra Caracal prodotti da Airbus, che ha lasciato a bocca asciutta tra gli altri Leonardo, è stata resa possibile anche dal congelamento dei rapporti tra l’Italia e gli EAU, e l’Arabia Saudita, dopo che Roma a fine gennaio ha sospeso le esportazioni di armamenti verso di due Paesi. Con i quali continua ad avere invece ottimi rapporti commerciali la Francia.