In questi giorni ho partecipato presso l’Università di Tel Aviv all’edizione 2025 della Cyberweek, uno dei più importanti appuntamenti scientifici al mondo per la sicurezza dell’universo digitale e per i futuri sviluppi dell’intelligenza artificiale.
Ho seguito con particolare attenzione i lavori dedicati al tema “Digital Trust”. In un’epoca dominata dalla disinformazione, la fiducia nei sistemi di comunicazione e l’attendibilità delle informazioni digitali sono obiettivi cruciali per il nostro futuro.
È sempre più importante esplorare a 360 gradi i molteplici lati oscuri e pericolosi che la rivoluzione digitale si porta dietro. Sotto questo profilo nel corso della Cyberweek si è sviluppato – anche in relazione al dramma del 7 ottobre – un dibattito molto acceso su quali sono i maggiori fattori di rischio e quali sono le migliori misure tecnologiche, organizzative e di crescita personale da adottare.
Quando ci si occupa di cybersecurity spesso si dimentica che uno dei fenomeni più inquietanti riguarda l’abuso di internet da parte dei ragazzi e degli adolescenti e talora anche degli adulti (in particolare nel gaming online). Questa sindrome patologica denominata “digital addiction” nelle sue forme croniche e gravi è assimilabile alle peggiori tossicodipendenze. In Italia su questo punto c’è allarme – giustificato – di genitori e insegnanti.
Una condizione necessaria, ma non sufficiente per ridurre la portata del fenomeno è diminuire il tempo in cui i bambini e i ragazzi sono esposti all’impatto degli schermi, siano essi di smartphone, di smartwatche, di computer e/o di tv. Contingentare il tempo è un dovere dei genitori per evitare che l’attrazione magnetica (tipo calamita) renda progressivamente sempre più difficile disconettersi. In questa prospettiva pediatri e neuroscienziati raccomandano frequenti interruzioni per evitare che un uso troppo prolungato possa produrre effetti indesiderati nella sfera psichica e fisica dei loro figli.
È noto da molti anni che in Cina milioni e milioni di ragazze e di ragazzi soffrono di dipendenza digitale grave. Sono stati sperimentati molti tentativi di cura, inclusi “campi agricoli di riabilitazione” molto duri e dall’esito incerto.
È inoltre notizia di questi giorni che – primo governante al mondo – in Australia il premier Anthony Albanese ha deciso di bandire i social media ai minori di 16 anni. Vedremo presto gli effetti pratici di questo esperimento, ma è evidente come in tutti i campi che non basta vietare, serve ed è altrettanto importante educare. È inpensabile che le nuove generazioni siano adeguatamente attrezzate sopratutto per affrontare la sfida dell’intelligenza artificiale, una dimensione in cui i confini tra realtà e fantasia sono sempre più difficili da identificare.
L’università di Tel Aviv è uno degli atenei israeliani che ha prodotto i più avanzati moduli didattici di educazione digitale tarati sui diversi livelli di istruzione, dalle elementari alle superiori. Ciò comprende anche le attività mirate all’aggiornamento professionale dei docenti e alla sensibilizzazione dei genitori.
Per i più piccoli si organizzano laboratori teatrali che simulano alcuni soggetti e alcune dinamiche proprie del mondo digitale. Per esempio personaggi che rappresentano gli hackers buoni e/o quelli cattivi, nonché ladri intenti a svaligiare un data center collocato in una grotta primordiale. Al di là dell’esperienza israeliana c’è ormai in questo nuovo campo pedagogico una vasta letteratura scientifica che meriterebbe in Italia maggiore attenzione, sopratutto dal Ministero della pubblica istruzione. L’uso del cellulare può essere bandito in classe, ma in mano ai ragazzi resta un’arma molto potente che scuola e famiglie hanno il dovere di includere nei processi educativi.
Un ultimo aspetto che mi ha colpito della Cyberweek sono i numerosi progetti di ricerca sulla promozione virale di false narrative. Basti pensare ai continui tentativi di influenzare le opinioni pubbliche (a oriente come a occidente) di manipolare con informazioni inesatte e distorte il dibattito pubblico e il funzionamento fisiologico dei mercati finanziari.
Tutta questa complessa materia è ancora in fase sperimentale, ma la ricerche in corso mi sono sembrate promettenti. L’ auspicio è che nelle università italiane si sviluppino programmi di cooperazione internazionali ed europea per affrontare queste grandi sfide.
Senza minimamente limitare il freedom of speech è importante acquisire la capacità di intercettare – sin dalle fasi iniziali – la diffusione virale di narrative propagandistiche fondate sull’inganno. Le ricerche in corso dimostrano ampiamente che rincorrere le singole fake news con il fact checking è inutile oltre che costoso. I processi mentali spesso non seguono solo la logica della razionalità, ma rispondono a dinamiche cognitive ed emotive molto più complesse.
Le ondate virali possono produrre danni gravi. Si pensi alle campagne No Vax fomentate dai russi, indispettiti dal fallimento del lori vaccino anti Covid Sputnik.
Non ho spazio per illustrare le molteplici opportunità che sono emerse all’interno della Cyberweek di Tel Aviv, ma penso che l’Italia per le sue tradizioni pedagogiche e umanistiche abbia la possibilità di svolgere un ruolo di avanguardia in questo campo in Europa.
A proposito di dimensione umanistica, un altro aspetto su cui raramente ci di sofferma è il seguente. Quando si invia un “cuoricino” o un “abbraccio” per via digitale di per sé non si fa niente di male. Però accade spesso di dimenticare che si tratta di un surrogato che non può minimamente sostituire il calore affettivo. Il nostro cervello ha il bisogno di sentire le emozioni non di farsele raccontare da un messaggino o da un’emoticon.
Alla lunga comunicare su un piano esclusivamente digitale può provocare uno stato anaffettivo: disconettere le emozioni crea infatti molti danni al benessere mentale delle persone.
Le false narrative si diffondono approfittando proprio di queste vulnerabilità. Quando c’è di mezzo la possibilità di migliorare la salute mentale e potenziare lo spirito critico dei giovani serve la cooperazione interaccademica internazionale. In questa prospettiva continuare il boicottaggio delle università israeliane mi sembra una scelta davvero molto miope oltre che un evidente boomerang sul piano scientifico.




