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diritto alla riparazione

Android sta legittimando l’obsolescenza programmata dei telefoni?

Un nuovo aggiornamento di Android permetterà agli sviluppatori di app di bloccare l'accesso agli utenti con device non aggiornati. Il motivo? La sicurezza. Così però si rischia di escludere milioni di persone da servizi di primaria importanza e si strizza l'occhio a condotte riconducibili all'obsolescenza programmata.

Gli aggiornamenti di PC, laptop, tablet e smartphone, si sa, non piacciono a nessuno. Nemmeno a farlo apposta vengono scaricati dal sistema operativo quando si ha necessità di utilizzare il device, bloccando tutti i lavori e ritardandone la chiusura. La loro installazione porta via parecchio tempo e, come se non bastasse, spesso peggiorano la situazione, rendendo il dispositivo ingovernabile, lento e instabile. Questi continui download ci ricordano insomma che non siamo pieni proprietari del software acquistato con l’hardware. Ma tra le tante pecche hanno comunque un vantaggio: mantenere alta la sicurezza del sistema, chiudendo falle precedentemente passate inosservate e inserendo nuove protezioni che rendano la vita un po’ più difficile agli hacker. Non tutti i download vengono per nuocere, dunque, ma tutti i download rischiano di portare un pochino più avanti le lancette dell’orologio che ticchettano la fine della vita del proprio device. Non pochi infatti parlano di obsolescenza programmata.

AGGIORNAMENTI OPPURE OBSOLESCENZA PROGRAMMATA?

L’obsolescenza programmata è una prassi parecchio diffusa nell’industria moderna volta a predeterminare una fine quanto più possibile rapida (ma comunque al di fuori del periodo di garanzia legale) di un elettrodomestico o di un dispositivo.

Quando le nonne ripetono che ai loro tempi una lavatrice, un frigorifero o una televisione duravano per più decadi non esagerano affatto: erano tutti dispositivi progettati per durare. Non a caso spesso si eredita dal nonno un orologio di pregio: difficilmente però il vostro smartwatch passerà di mano, benché lo abbiate pagato cifre non indifferenti.

Oggi infatti molte industrie per alimentare un consumo serrato – ed essendo contestualmente sparita la figura del tecnico che ripara videoregistratori, tostapane e telefoni –  fanno in modo che i dispositivi escano velocemente di scena fin dalla progettazione.

LA UE NON VEDE DI BUON OCCHIO TALI PRATICHE

Se poi gli elettrodomestici in questione hanno un software al proprio interno, l’obsolescenza programmata è ancora più facile. Basterà infatti agire attraverso il programma che viene scaricato via etere per fare impazzire l’intero sistema, rendendolo instabile o incredibilmente lento. In una parola: inservibile.

Non si può dire che rappresenti una condotta del tutto illecita nella Ue, nonostante negli anni almeno tre norme contro l’obsolescenza programmata – finite a loro volta obsolete in qualche cassetto di Strasburgo – si siano avvicendate all’Europarlamento.

Sarebbe più corretto affermare che è una condotta osteggiata da Bruxelles: passi in avanti sono stati compiuti con un recente corpus normativo che ha infastidito e non poco i grandi produttori di smartphone e laptop:  “Norme comuni che promuovono la riparazione dei beni”, un testo che mira sia a tutelare il consumatore, sia a ridurre la circolazione dei Raee, rifiuti tecnologici che andrebbero smaltiti con cura per consentire il riciclo di terre rare e materie prime contenuti nei dispositivi hi-tech che la Ue è costretta a importare.

L’AGGIORNAMENTO DI ANDROID FAVORISCE L’OBSOLESCENZA PROGRAMMATA?

Da qualche ora molti osservatori si chiedono se l’ultimo aggiornamento di Android, il noto e diffuso sistema operativo di Google, presente in milioni di dispositivi portatili (tablet, smartphone) non rappresenti proprio un caso di obsolescenza programmata dato che permette di identificare i dispositivi che non ricevono aggiornamenti di sicurezza da oltre un anno: in quel caso, le app più critiche (come quelle bancarie), potrebbero smettere di funzionare.

NON INTERVIENE GOOGLE, MA LIBERAMENTE LE TERZE PARTI

Attenzione, in questo caso non è Google stessa a intervenire attraverso il suo sistema operativo. Si tratta infatti di un aggiornamento alla Play Integrity API che offre agli sviluppatori strumenti per ridurre i rischi di frode e verificare l’affidabilità dei dispositivi. Sono insomma loro, quando costruiscono la propria app, a decidere se implementarla o meno.

La Play Integrity API consente alle app di terze parti di interagire con il sistema operativo Android per verificare se un dispositivo è sicuro. Con l’aggiornamento, dal prossimo marzo il sistema se interregato dai software installati potrà restituire un nuovo verdetto: “meets strong integrity”, che certifica se un dispositivo ha ricevuto un aggiornamento di sicurezza Android nell’ultimo anno. La verifica non si basa sugli aggiornamenti delle app o del Play Store, ma su patch di sicurezza inviate direttamente dai produttori di dispositivi.

GLI INTERESSI IN GIOCO

Il fine è apparentemente nobile, come quello di ogni aggiornamento: elevare al massimo livello la sicurezza del dispositivo così da evitare all’utente brutte sorprese.

Ma le conseguenze possono essere anche di tutt’altro tipo: escludere milioni di persone dotate di un dispositivo vecchio, che non può più essere aggiornato pena l’ingovernabilità del sistema (o semplicemente perché presenta una vecchia versione di Android, come per esempio Android 12, rimasto fuori dall’aggiornamento in esame) dalla fruizione di servizi essenziali come quelli delle app bancarie, ma anche quelli della Pubblica amministrazione che conservano i propri dati e i nostri documenti digitali.

PROLIFERERANNO I RAEE?

I tempi del televisore in bianco e nero della nonna, giunto fino all’avvento del digitale terrestre senza perdere un colpo sembrano proprio sbiaditi. Molti osservatori però sostengono che se si decide di percorrere simili strade bisognerebbe obbligare sviluppatori e produttori dei device a continuare ad aggiornare i vecchi sistemi operativi e i vecchi dispositivi, oppure permettere l’accesso alle app critiche avendo informato l’utente che lo fa a proprio rischio e pericolo.

Quest’ultima ipotesi per la verità traballa: è facile immaginare che molti software aziendali, deputati allo smart working, sfrutteranno immediatamente la possibilità di legare l’accesso all’aggiornamento costante dei device utilizzati dai dipendenti. Si tratta di una questione di sicurezza aziendale. Se il dispositivo è aziendale si avrà al più un aumento di circolazione dei Raee.

Un problema non di poco conto per l’ambiente: la stessa Ue ci dice che la quantità di apparecchiature elettriche ed elettroniche immesse sul mercato comunitario è aumentata da 7,6 milioni di tonnellate nel 2012 a 13,5 milioni di tonnellate nel 2021. Mentre il totale di apparecchiature elettriche ed elettroniche raccolte è salita da 3,0 milioni di tonnellate nel 2012 a 4,9 milioni di tonnellate nel 2021.

Ma se il device è personale oltre al danno per l’ambiente si avrà pure un risvolto economico ben poco piacevole per l’utente che dovrà regolarmente acquistare device nuovi così da poterli aggiornare. E i produttori di device ringraziano.

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