Ho letto di prestigiosi personaggi al vertice di delicatissime istituzioni che hanno teso il proprio arco e scoccato dardi letali sul 5G che, moderno San Sebastiano, sarebbe stato ripetutamente trafitto perché colpevole di complicare o rendere impossibili le intercettazioni e ogni altro procedimento di acquisizione di elementi informativi utili ai fini investigativi o di intelligence.
Le dichiarazioni rilasciate al Sole 24 Ore o comunque riprese dall’autorevole testata mi hanno “impressionato”, al punto di farmi domandare chi avesse riempito la faretra di così importanti arcieri.
Il mio – mi auguro legittimo – sbigottimento ha evocato il ricordo di Boldi che, nella sua profetica anticipazione dell’odierna stagione di cuochi fatui, si professava contrario alla pentola a pressione. L’inesorabile avvento della quinta generazione dei sistemi di comunicazione – forse è il caso di chiarirlo una volta per tutte – riserva serie preoccupazioni in termini di sicurezza ma, come urlerebbe Antonio Di Pietro, con le intercettazioni “che ci azzecca?”.
I temi della cyber security (prezzemolo di qualsivoglia ricetta di salute nazionale) hanno finito con l’intrecciarsi con altre emergenze, a cominciare con quella del sempre più difficilmente recuperabile gap che – in ambito preventivo e giudiziario – separa i buoni dai cattivi.
Il 5G desta serie preoccupazioni perché la sua infrastruttura è sostanzialmente imperscrutabile e l’adozione dei dispositivi che ne consentono il funzionamento comporta un devoto atto di fede nei confronti di chi li ha progettati. Poco importa se è Hauwei o un altro fornitore che comunque non è italiano o comunitario e risponde a logiche (e sollecitazioni) non necessariamente allineate agli obiettivi nazionali di tutela del sistema nervoso del Paese e delle infrastrutture critiche la cui funzionalità dovrebbe godere di priorità assoluta.
L’Italia non investe in tecnologie da decenni, trascinata al guinzaglio dai Paesi che hanno scommesso sul futuro e che hanno in mano la cloche del progresso, che condizionano il nostro domani, che dispongono – attraverso i loro dispositivi e i loro software – del totale controllo della situazione.
La nostra situazione nazionale è di nitida sudditanza culturale, condizione che si può immediatamente sintetizzare – a parlar per slogan come va di moda oggi – in uno sconfortante “prima tutti gli altri”. E’ morta la capacità progettuale, è finita la produzione di qualsivoglia arnese moderno, è sparita la volontà di indipendenza e forse persino quella di sopravvivenza. La colonizzazione tecnologica americana o cinese è avvenuta con la complicità dell’inerzia dell’industria italiana i cui colossi – farciti da personaggi graditi a questo o quel politico – hanno spento i motori prediligendo il “ritargare” prodotti altrui e il subappaltare il destino tricolore.
Il 5G non è un problema per le intercettazioni (per le quali sussistono altre inenarrabili difficoltà), ma per la subordinazione dell’Italia dinanzi alle industrie hi-tech straniere, per la inconsapevole sottomissione a governi e servizi segreti esteri che adoperano router e altre diavolerie come moderne forche caudine, per (a voler esser romantici) la libertà e per i diritti civili di tutti noi.
Il 5G è la strada, gli strumenti che se ne servono sono le auto.
Sulle vie di comunicazione si possono mettere blocchi o costringere a deviazioni, ma ogni operazione del genere è impossibile perché caselli, corsie e guard-rail sono dominate da qualcun altro.
Gli strumenti hardware e software su cui esercitare il potere di ascoltare, registrare e acquisire, impongono (quasi fossero davvero vetture in movimento) di procedere a maggior velocità, con superiore capacità di guida, con ottima conoscenza di curve e scorciatoie.
L’Italia ha rinunciato ad esser padrona delle strade e quindi non può certo pretendere di cambiare un assetto che ha progressivamente determinato grazie a scelte sbagliate, opera di persone sbagliate al posto sbagliato. La fedeltà politica o, ancor peggio, devozione e ubbidienza sono state le caratteristiche su cui si è incernierata la strana meritocrazia delle nostre parti. Il risultato è sotto gli occhi di tutti.
L’Italia ha perso l’opportunità di avere vera capacità operativa nel mutevole scenario del contrasto al crimine organizzato o al terrorismo, castrando eccellenze come il GAT Nucleo Speciale Frodi Telematiche della Guardia di Finanza o consentendo l’esodo delle persone qualificate che in altre realtà pubbliche venivano quotidianamente mortificate da vertici incapaci di riconoscerne le professionalità. Si è preferito vivere di dichiarazioni roboanti, di protocolli di intesa, sostanzialmente di chiacchiere.
Nessuno si è messo a studiare il problema quando ancora c’era il tempo per trovare soluzioni e rimedi. A colpi di slide policrome e di espressioni anglofone apparentemente dotte si è messa KO la speranza di farcela.
Chi delinque (torneremo a parlarne) non adopera WhatsApp o Telegram, ma si avvale di tecniche ben più sofisticate. Ha soprattutto la consapevolezza che la forza è nel costante cambiamento, è nel non dare l’opportunità agli altri di organizzarsi. Qui da noi, dove chi dovrebbe non si organizza nemmeno, la vita del bandito è davvero facile. E la colpa non è certo del 5G.