skip to Main Content

Prezzo Del Petrolio

Vi spiego come e perché riprendono gli investimenti nel petrolio

Due big del settore come Shell e BP hanno rallentato i piani per abbandonare le attività tradizionali, avendo sperimentato ritorni sugli investimenti nelle fonti rinnovabili pari a meno della metà di quelli in idrocarburi. Del resto, la domanda di petrolio nel 2023 raggiungerà un nuovo record a 102,3 mb/giorni, con la Cina e l’India a trainare i consumi mondiali. L'intervento di Sergio Giraldo

Il petrolio non dorme mai, verrebbe da dire parafrasando il Gordon Gekko del celebre film Wall Street.

Mentre non si parla d’altro che di lotta al cambiamento climatico, l’Agenzia internazionale per l’energia (IEA), controllore-in-chief della transizione ecologica, prevede che quest’anno gli investimenti nel settore della ricerca ed estrazione di petrolio e gas cresceranno dell’11% a circa 528 miliardi di dollari. Una cifra ragguardevole, che non si vedeva da quasi dieci anni. Magari un po’ c’entra anche l’inflazione, ma gli analisti di Wood Mackenzie, dal canto loro, vedono un settore di E&P (Exploration & Production) in crescita del 20% entro il 2025 e investimenti di oltre 180 miliardi per sviluppare riserve di petrolio pari a 27 miliardi di barili, soprattutto offshore. Ad influire sulle decisioni di investimento sono le notevoli incertezze legate alla transizione ecologica, che procede su un percorso assai accidentato, ma anche la guerra in Ucraina. Le prospettive di utili a medio termine nel settore petrolifero, considerata la situazione attuale, rimangono attraenti.

Non a caso due big del settore come Shell e BP hanno rallentato i piani per abbandonare le attività tradizionali, avendo sperimentato ritorni sugli investimenti nelle fonti rinnovabili pari a meno della metà di quelli in idrocarburi. Il ragionamento degli azionisti del settore petrolifero è che la transizione verso Net Zero richiede tempi ancora lunghi e nel frattempo è operazione finanziariamente sensata sfruttare il più possibile gli asset esistenti. Un buon testimone di questo fatto può essere il confronto tra numero di pozzi attivi (il cosiddetto rig count, un indicatore monitorato settimanalmente da Baker Hughes) e produzione di petrolio negli Usa. A fronte di un rig count al 30 giugno 2023 di -76 rispetto al 1° luglio 2022, la produzione americana di greggio è la stessa di un anno fa, pari a 12,2 milioni di barili al giorno. Segno di una maggiore efficienza negli investimenti. In più, sempre Baker Hughes fa notare come il numero di strutture offshore per E&P (Exploration & Production) sia tornato ai livelli precedenti il periodo Covid, facendo segnare un +45% rispetto ai minimi dell’ottobre 2020.

Si tratta dunque di una massimizzazione del ritorno degli investimenti in un’ottica di medio termine. Del resto, la domanda di petrolio nel 2023 raggiungerà un nuovo record a 102,3 mb/giorni (fonte: IEA), con la Cina e l’India a trainare i consumi mondiali. Mentre i paesi dell’OCSE cercano di ricostituire le scorte (ancora inferiori di 86 milioni di barili rispetto alla media degli ultimi 5 anni), l’Asia cresce sia nel consumo che nella raffinazione, grazie alle nuove raffinerie in Oman e Kuwait. Dall’Occidente arrivano, in effetti, segnali di debolezza per i consumi energetici in generale. Gli indicatori macroeconomici europei non sono buoni, con una Germania in recessione, un’attività manifatturiera in contrazione e un’inflazione che agita i sonni di Madame Christine Lagarde (ma soprattutto del capo della Bundesbank, Joachim Nagel). Ne consegue che anche gli utilizzi di petrolio e raffinati/distillati non sono e non saranno particolarmente brillanti. Da altre parti nel mondo però non è così ed infatti la maggiore crescita dei consumi è prevista nei paesi non-OCSE, mentre globalmente la domanda di carburante per aerei crescerà in maniera significativa.

Pare insomma che gli appelli a diminuire i consumi dei combustibili fossili siano poco ascoltati in Asia, mentre l’Occidente, più che diminuire volontariamente i consumi, vede un’inerzia in calando soprattutto per la debolezza dell’economia, che probabilmente sarà molto più evidente nella seconda parte di quest’anno.

Intanto, l’Arabia Saudita ha annunciato l’estensione a tutto il mese di agosto del taglio alla produzione da 1 milioni di barili al giorno già previsto per luglio, mentre per lo stesso periodo la Russia ridurrà di 500.000 barili/giorno. I prezzi del greggio WTI hanno risentito immediatamente dell’annuncio e sono risaliti a 71 dollari al barile. L’intento smaccato di questa mossa è quello di tenere i prezzi sopra i 70 dollari al barile, un livello che ai paesi OPEC e OPEC+ va più che bene.

Non è estranea a questa nuova ondata di investimenti nel più old economy dei settori l’insperata messe di profitti realizzati nel 2022, allorché le turbolenze sui mercati innescate dall’invasione dell’Ucraina da parte della Russia hanno gonfiato i bilanci di molte major dell’oil & gas. Le maggiori compagnie hanno frenato sugli investimenti, negli ultimi anni, ed ora sono sedute su un bel mucchio di liquidità. Il fatto che preferiscano continuare ad investire nel settore di elezione anziché nella transizione può significare due cose. La prima è che gli azionisti sono convinti che ci sarà sempre bisogno di petrolio e che la transizione energetica, in fondo, non si realizzerà mai. La seconda è invece che questa è l’ultima finestra temporale da cui poter trarre il massimo vantaggio economico, prima del declino inesorabile portato dalla transizione verso il Net Zero. Forse questa seconda ipotesi è più realistica, ma visto il numero di volte in cui in passato il petrolio è stato dato per morto, preferiamo astenerci dal fare profezie che sembrano avere quale unico risultato quello di allungarne la vita.

Back To Top