A Teheran, la possibilità di chiudere lo stretto di Hormuz – uno dei passaggi marittimi più importanti al mondo, l’unico ingresso, l’unica uscita dal Golfo Persico – è considerata l’arma di ultima istanza. Il whatever it takes per salvare il Paese, o per rimanere al potere, mettetela come volete.
Da lì passa il 20% del petrolio mondiale – immaginate cosa succederebbe al prezzo del carburante se quella fornitura si interrompesse. E anche 60 milioni di tonnellate di gas naturale liquefatto (GNL) – che da lì arriva anche in Italia.
Al di qua dello Stretto ci sono le metropoli del Golfo: Dubai, Abu Dhabi, Doha. E i regni e gli emirati la cui finanza sostiene buona parte dell’economia mondiale: a parte l’Arabia Saudita, Emirati Arabi, Qatar, Bahrein, Kuwait.
Gli iraniani hanno menzionato tre giorni fa questa possibilità. Immediatamente, la portaerei americana Nimitz, che bordeggiava pigramente nel Mar Cinese Meridionale, “s’è svejataaaa”, ha acceso i motori, ha attraversato lo Stretto di Malacca (altro passaggio chiave nella geopolitica mondiale) e ha fatto rotta verso Hormuz. La Nimitz è una città galleggiante – e armata fino ai denti. 330 metri di lunghezza, due reattori nucleari, 90 aerei da combattimento, fino a 6mila persone di equipaggio.
Il blocco avrebbe conseguenze incalcolabili. Quando i Paesi arabi, nel 1973, tagliarono gli idrocarburi agli alleati di Israele, lo shock fu clamoroso. L’inflazione sfondò il 30%. In Europa, coincise con il crollo delle dittature di Spagna, Portogallo e Grecia, la radicalizzazione di IRA e ETA in Ulster e Paesi Baschi, e la fase più acuta del terrorismo in Italia e Germania.
Fu anche per questo che negli anni successivi anche politici moderati o conservatori, come Andreotti in Italia o Suarez in Spagna, facevano la fila per fotografarsi insieme al combattente palestinese Yasser Arafat.
L’Iran degli ayatollah, nonostante le varie guerre, scaramucce, sequestri di petroliere, non ha mai chiuso Hormuz. Ma sostiene di avere la capacità per farlo. La marina USA sostiene invece di avere la capacità per impedirglielo.
Torniamo un attimo alla guerra in corso.
Eravamo partiti da una guerra (buona, giusta, liberale, ecc) “contro il nucleare fondamentalista”; siamo arrivati in pochi giorni ai bombardamenti sugli ospedali. Quello su Soroka di oggi (di cui leggete su tutti i giornali) segue quello dei missili israeliani su ospedali in Iran (di cui non avete letto su nessun giornale, ma…). E questo non per dire “tu buono, tu cattivo”, qui si può dire solo “tu criminale, tu criminale”, ma per sottlineare una volta ancora che “il nucleare” o “il regime” sono l’ultima delle preoccupazioni per chi ha cominciato questa guerra.
L’obiettivo di Trump e Netanyahu resta imporre il Medio Oriente che vogliono, con la forza. Un disegno basato sulla supremazia militare e tecnologica di Israele (che si prepari dunque ad altri anni di guerra, sotto la guida politica del suo fondamentalismo ideologico e religioso, “dal mare al fiume” che non sarà nemmeno l’Eufrate ma ormai l’Indo), e sugli idrocarburi e la finanza dell’Arabia Saudita. L’Iran, lo stato più popoloso della regione, fuori.
Gli USA di Trump non hanno ancora deciso se lasciare a Israele l’onere dell’azione (con l’idea che possa anche fallire), oppure contribuire direttamente. Infliggendo con le proprie armi un colpo micidiale all’Iran – cioè alle sue infrastrutture vitali: i pozzi, le raffinerie, le centrali, le vie di comunicazione, gli impianti idrici, ecc.
Un dato di cui va tenuto conto: l’Iran esporta il 90% del suo petrolio alla Cina. La punizione fischiata contro l’Iran si insaccherebbe nella porta di Xi Jinpin – e lo juventino Trump ruberebbe la partita.
Seguiamo un attimo i soldi. Che cosa succederebbe in caso di escalation, o in caso di blocco di Hormuz? Che i prezzi del petrolio e del gas salirebbero. Favorendo: USA, Russia, Arabia Saudita. Danneggiando Europa e Cina: cioè chi non ha risorse energetiche proprie. Perché noi con la transizione energetica ci stiamo fermando, siamo furbi eh? Non la Cina, che da poco ha segnato per la prima volta un 25% rinnovabile nel suo consumo di energia, risultato incredibile per un Paese di 1,4 miliardi di abitanti, energivoro quanto la prima potenza industriale globale può esserlo.
Ma è ancora troppo poco per Pechino, per non essere dipendente dall’energia del Golfo. Ed ecco che il Presidente che si è fatto eleggere nel nome della pace e dell’isolamento ha una ghiotta convenienza economica e geopolitica nel bombardare l’Iran. Certo: sulla bilancia ci sono anche moltissimi rischi, per gli Stati Uniti inclusi – non parlo di un calcolo semplice. Ma l’ipotesi è sicuramente presa in considerazione. D’altronde la guerra in Iraq, condotta su ragioni totalmente inventate, garantì a George W. Bush la rielezione. E Trump col consenso sta messo maluccio. Sì, fu un disastro. Morirono centinaia di migliaia di persone. Il ditattore cattivo fu sostituito da regimi altrettanto criminali. Nacque l’ISIS.
Tra i contrari, pesa il veto dell’influentissima Arabia Saudita: è vero che ci guadagnerebbe col petrolio, ma data la sua estensione e trattandosi di un territorio enorme e quasi indifeso, l’escalation del conflitto potrebbe essere pericolosa per le _sue_ infrastrutture petrolifere. Negli anni scorsi d’altronde beffardamente colpite dai filo-iraniani Houthi dallo Yemen, che con quattro droni telecomandati hanno bruciato alcune delle raffinerie più grandi del mondo. Un’umiliazione che bin Salman non ha fretta di rivivere.
L’Europa appunto – che ha sostituito il gas russo con il GNL del Golfo e con quello americano – ne avrebbe un danno enorme. Che diventerebbe un cataclisma se alla chiusura di Hormuz si sommasse un nuovo attacco degli Houthi su Bab el-Mandeb, porta del Mar Rosso, da dove passa il commercio cinese per i nostri porti. Così, la tenaglia si chiuderebbe.
E il regime? E l’ayatollah nascosto sottoterra come un verme? Fantasie da venderci: quello resterà al suo posto. La guerra rafforza il fondamentalismo: i primi, anzi le prime a dirlo, sono proprio le donne che vi si oppongono. Qui un articolo che consiglio.
Sì, Israele sta facendo “il lavoro sporco”. Ma per chi?