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Scenari Energetici Petrolio

Che cosa succederà ai prezzi del petrolio dopo l’attacco ad Aramco. L’analisi di Marinone

L'approfondimento di Lorenzo Marinone

Quotazioni del petrolio senza sensibili variazioni in avvio di settimana. I contratti sul greggio Wti con scadenza a novembre restano sotto i 56 dollari al barile a quota 55,89 dollari senza sensibili variazioni rispetto alle quotazioni di venerdì; il Brent è a quota 61,71 dollari, in calo di 20 centesimi.  “Se il mondo non intraprende un’azione forte e ferma per scoraggiare l’Iran, vedremo ulteriori escalation che minacceranno gli interessi mondiali”, è stato l’avvertimento lanciato oggi dall’erede al trono saudita, il principe Mohammed bin Salman, in un’intervista al programma Usa ’60 Minutes’. Con una minaccia precisa: “Le forniture di petrolio saranno interrotte e i prezzi saliranno a numeri tanto elevati come non abbiamo mai visto”, ha detto. (Redazione Start Magazine)

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Sabato 14 settembre un attacco complesso compiuto con droni e, probabilmente, missili, ha colpito alcune delle più importanti infrastrutture idrocarburiche dell’Arabia Saudita. Si tratta del complesso di Abqaiq, situato nella Provincia Orientale a 300 chilometri a nord-est della capitale, e del vicino campo petrolifero di Khurais. Abqaiq è il vero centro nevralgico del settore petrolifero su cui si regge il Regno dei Saud.

Maggior impianto di trattamento del greggio del Paese, dalla sua operatività dipende sia l’export via mare attraverso il Golfo Persico (tramite il terminal di Ras Tanura), sia quello via terra lungo l’oleodotto East-West verso il Mar Rosso. In più, tra gli obiettivi colpiti figurano proprio quei gas oil separation plant (GOSP) che sono cruciali per depurare il greggio e renderlo commerciabile, e la cui riparazione è ben più complessa rispetto ad altre infrastrutture come, ad esempio, un oleodotto.

L’entità del danno è apparsa fin da subito elevata. Nelle ore successive all’evento Riyadh ha visto dimezzata la sua produzione giornaliera di petrolio (da oltre 10 a poco più di 5 milioni di barili), mentre il prezzo del greggio sui mercati internazionali è aumentato di circa il 20%, nonostante tanto l’Arabia Saudita quanto gli Stati Uniti abbiano prontamente assicurato di poter supplire all’ammanco (il 5% dell’output globale di petrolio) attingendo alle proprie riserve strategiche finché gli impianti non torneranno in funzione.

A prescindere dalle esatte modalità con cui è stato portato a termine l’attacco e dall’identificazione univoca di un responsabile, ad ogni modo, il semplice fatto che un attore mediorientale, statale o parastatale, si sia potuto spingere a compiere deliberatamente un’azione di questa portata, indica con estrema chiarezza quanto sia oggi fragile, se non virtualmente inesistente, una qualsiasi architettura di governance regionale, che fissi delle linee rosse oltre le quali le tensioni esistenti non si possono spingere se non al prezzo di un’instabilità generalizzata e difficilmente controllabile.

A ben vedere, il recente attacco in Arabia Saudita rappresenta la cifra del Medio Oriente alle prese con il disfacimento del JCPOA (Joint Comprehensive Plan of Action), l’accordo sul nucleare iraniano. Infatti, questo accordo, al netto delle diverse critiche che sono state avanzate, ha costituito l’incentivo più potente degli ultimi decenni, e con la garanzia internazionale più vasta, affinché, negli equilibri interni all’Iran, la fazione più moderata dei riformisti riuscisse a guadagnare spazio e capacità di iniziativa a discapito di quelle più oltranziste.

Queste ultime non sono solo tradizionali sostenitrici della necessità di mantenere una postura piuttosto rigida, e di adottare una cauta diffidenza verso qualsiasi offerta di distensione venga prospettata al Paese. Ma esse sono anche le dirette ispiratrici di quella politica di “difesa attiva” che Teheran, fin dagli albori del regime khomeinista, ha trasformato nella cifra della propria azione esterna. Fra tali misure rientrano sia il ricorso ad attentati e azioni di sabotaggio sia lo sviluppo di proxy nella regione, da impiegare per ingaggiare i rivali lontano dai propri confini nazionali e per influenzare la vita politica e l’economia dei Paesi in cui essi agiscono. In altri termini, diminuire l’influenza delle fazioni oltranziste avrebbe potuto significare una sensibile riduzione delle tensioni che interessano buona parte del Medio Oriente.

Inevitabilmente, la morte prematura dell’accordo sul nucleare dovuta al ritiro unilaterale degli Stati Uniti ha esposto la posizione di riformisti, come il Presidente Hassan Rouhani e il Ministro degli Esteri Javad Zarif, a durissime critiche da parte dei rivali interni, che, quindi, hanno ripreso il pieno controllo della proiezione iraniana nella regione.

Non va poi sottostimato l’effetto nelle dinamiche mediorientali della nuova posizione americana, dettata dall’Amministrazione Trump, rispetto al ruolo di Washington nella regione, improntata ad un progressivo disimpegno da alcuni dossier di grande rilevanza, e più in generale da un approccio spiccatamente più unilaterale rispetto al passato. Questa prospettiva ha avuto come primo effetto un indebolimento della leadership americana nella regione, dimostrato anche dagli scarsi risultati ottenuti nella recente gestione della questione israelo-palestinese.

A ben vedere, l’indebolimento della leadership americana e le incertezze legate al ruolo di Washington, insieme all’affossamento dell’accordo sul nucleare che rappresentava, pur in forma embrionale, un possibile punto di partenza su cui costruire nel tempo un nuovo ordine in Medio Oriente, hanno lasciato la regione esposta a tutte le  fragilità e le tensioni nuove che si sono accumulate negli ultimi anni, senza che vi siano delle regole del gioco condivise.

In un contesto del genere, di conseguenza, sembrano poter venir meno anche quelle poche regole, accettate per vantaggio reciproco da attori rivali, le quali avevano congelato alcuni possibili fronti dove si poteva sfogare in modo incontrollato la competizione regionale.

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