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Petrolio, perché i piani di Trump sul Venezuela eccitano Exxon e Chevron

Il Venezuela ha le riserve petrolifere più grandi del mondo ma estrae appena l’1% della produzione globale. Con Trump che ora minaccia di intervenire, tutto quell'oro nero potrebbe presto tornare in mano alle major americane. Fatti, numeri e approfondimenti

Il Venezuela possiede le riserve petrolifere più grandi del pianeta – più di Arabia Saudita e Russia messe insieme – ma oggi produce appena un centesimo del greggio consumato nel mondo. Un paradosso fatto di corruzione, infrastrutture al collasso e sanzioni americane.

Come sottolinea il New York Times in un approfondimento, ora che Donald Trump è tornato alla Casa Bianca e parla apertamente di intervento militare nei Caraibi, quel tesoro sepolto sotto l’Orinoco potrebbe rientrare in gioco.

Il tesoro sepolto

Il Venezuela siede su oltre 300 miliardi di barili di greggio provati, il 17% di tutto quello che il mondo sa di poter estrarre.

Negli anni Novanta il Paese contribuiva con quasi il 5% della produzione globale. Oggi arranca all’1%. È la storia di una cassaforte stracolma con la serratura arrugginita e la chiave buttata via.

Una ex industria gioiello

Tutto gira attorno a PDVSA, la compagnia di Stato che un tempo era tra le più efficienti del pianeta.

I giacimenti principali sono nella fascia dell’Orinoco, dove il petrolio è così denso e sabbioso da sembrare catrame caldo. Servono capitali, tecnologia e manutenzione continua per tirarlo fuori e trasportarlo.

Chávez prima e Maduro poi l’hanno usata come bancomat personale: licenziarono in massa i tecnici scomodi, decisero di vendere la benzina a prezzi politici e smisero di reinvestire, determinando il decadimento degli impianti e il forte rallentamento della produzione.

Il risultato è stato devastante: estrazione crollata da 3,5 milioni di barili al giorno nel 2008 a meno di 800 mila oggi, raffinerie che scoppiano o restano ferme per mancanza di pezzi di ricambio, pozzi intasati, blackout quotidiani e i migliori ingegneri scappati all’estero.

I rapporti con gli Usa

Fino al 2019 gli Stati Uniti erano il mercato naturale, compravano quasi metà dell’export perché le raffinerie del Golfo del Messico sono nate per lavorare proprio quel greggio pesante. Poi arrivarono le sanzioni della prima amministrazione Trump e il rubinetto si chiuse di colpo. Nel 2023 ci fu un piccolo disgelo, ma i volumi restano simbolici.

Oggi il grosso del petrolio venezuelano finisce in Cina, spesso attraverso triangolazioni opache per aggirare le restrizioni, mentre il resto del mondo compra sottobanco il greggio di Caracas a prezzi stracciati, pur di non finire nella lista nera di Washington.

Chi è rimasto e chi è scappato

Chevron è l’unica grande major che non ha mai mollato del tutto: è lì da un secolo, tira fuori circa un quarto del petrolio che ancora si produce e, grazie a una licenza speciale, continua a spedirlo negli Stati Uniti. Il suo amministratore delegato citato dal Nyt lo ripete come un mantra: “Noi giochiamo sul lungo periodo, saremo pronti quando le cose cambieranno”.

Repsol ed Eni estraggono gas offshore per evitare che il paese resti al buio; fino a pochi mesi fa venivano pagate in greggio da rivendere, ma Washington ha bloccato anche quel meccanismo e ora stanno trattando col Tesoro americano per riavere i crediti.

ExxonMobil e ConocoPhillips, invece, furono cacciate nel 2007 con gli espropri di Chávez e da allora combattono in tribunale per recuperare miliardi che probabilmente non vedranno mai.

Il ruolo di Citgo

Non solo secondo il Nyt l’elemento più assurdo riguarda il ruolo di Citgo. Stiamo parlando di una grande compagnia petrolifera statunitense, di proprietà al 100% del governo venezuelano tramite PDVSA.

In pratica Citgo è il braccio commerciale e di raffinazione di Caracas negli Stati Uniti. Possiede 3 grandi raffinerie (Lemont in Illinois, Lake Charles in Louisiana e Corpus Christi in Texas) con una capacità complessiva di circa 800 mila barili al giorno; una rete di migliaia di stazioni di servizio con il marchio Citgo in tutti gli USA; oleodotti, terminali e magazzini sparsi sul territorio americano.

Fino al 2019 era il canale principale con cui il Venezuela incassava dollari puliti: il greggio partiva dal Venezuela, arrivava alle raffinerie Citgo, veniva trasformato in benzina e diesel e venduto sul mercato americano.

Da anni è ostaggio di una guerra legale tra creditori che reclamano oltre 20 miliardi. A novembre un giudice federale ha ordinato la vendita forzata per appena 5,9 miliardi a un fondo legato a Elliott Management. Maduro ha urlato al furto coloniale e ha fatto ricorso, ma se perde Citgo il regime perde l’ultima vera fonte di dollari.

Cosa può succedere adesso

Con Trump di nuovo al comando il capitolo del petrolio venezuelano potrebbe riaprirsi e in maniera brusca. Le sanzioni possono diventare ancora più asfissianti, la produzione crollare ulteriormente e Maduro tentare di resistere contando sull’aiuto di Cina e Russia. Oppure possono arrivare raid mirati nei porti e sulle rotte di export, paralizzando quel poco che resta.

O, ancora, può scattare il grande affare che manderebbe Trump in brodo di giuggiole: defenestrazione di Maduro o elezioni monitorate, apertura al mercato, licenze a pioggia per le major americane ed europee. In quel caso Chevron si espanderebbe, Exxon e Conoco tornerebbero a riprendersi ciò che gli spetta e in pochi anni la produzione potrebbe risalire verso i 2-3 milioni di barili al giorno.

Per gli Stati Uniti sarebbe la manna: la produzione interna è vicina al plateau, il greggio venezuelano è perfetto per le loro raffinerie ed è a due passi di nave. Per Maduro significherebbe la sconfitta.

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