Se dovessimo assegnare l’Oscar mondiale dell’ipocrisia ambientale non vi sarebbe dubbio a conferirlo alla Germania, tra una terna di nomination comprendente anche Norvegia e Gran Bretagna. Qualche replay può essere utile a capirne la ragione.
Il cancellierato di Gerhard Schröder (1998-2009) alla guida di una coalizione rosso-verde, fu antesignano della green policy europea con l’approvazione nel 2000 del Renewable Energy Act che riconosceva alle rinnovabili ingenti incentivi con quelli più elevati al solare, nella logica che a beneficiarne dovesse essere la tecnologia meno conveniente. Benché la Germania non fosse certamente l’ideale per solarità divenne leader nel fotovoltaico. “Un esempio – scrisse argutamente il grande storico dell’energia Vaclav Smil – di come qualsiasi cosa sia possibile con i sussidi”.
Nel 2004, quando fu varato l’Energiewende, la transizione tedesca al dopo-fossili, il ministro dell’energia verde Junger Trittin disse che il suo costo era “di un euro al mese, l’equivalente di una pallina di gelato sulle bollette mensili”. Battuta infelice perché nove anni dopo il suo successore del partito CDU dichiarò che sarebbe potuto costare fino a 1 trilione di euro alla fine del 2030. Cifra che recenti stime aumentano a 3,2 trilioni entro il 2050.
Angela Merkel, divenuta Cancelliere dal 2005 – dopo essere stata Ministro dell’Ambiente dal 1994 al 1998 e aver presieduto nel 1995 la prima Conferenza sul Clima delle Nazioni Unite (COP1) – consolidò la politica del predecessore a favore delle rinnovabili riuscendo nel semestre di presidenza tedesca dell’Unione nella prima metà del 2007 ad imporla al resto d’Europa. Duplice l’obiettivo: non svantaggiare l’economia tedesca per le più elevate tariffe elettriche che sarebbero derivate dalla penetrazione delle rinnovabili e favorire l’industria tedesca che contava allora centinaia di migliaia di occupati. Gli altri paesi europei e la Commissione vi si adeguarono, rendendo vincolanti le politiche pro-rinnovabili nella Direttiva 20-20-20.
Questa lunga premessa per evidenziare la contraddizione della Germania che continua a porsi al resto del mondo come leader nella green economy mentre al contempo favorisce il peggio che vi possa essere nelle tecnologie energetiche inquinanti: la lignite (brown coal).
Antichi villaggi e intere foreste sono rase al suolo dai bulldozer per lasciar spazio a nuove miniere di lignite, sette delle quali sono tra i dieci impianti più inquinanti d’Europa. Questo sta avvenendo nella parte sud-occidentale della Germania, a Immerath (Renania-Palatinato) ove si è arrivati ad abbattere una chiesa per aprire una nuova miniera, e in quella orientale nel villaggio di Podelwitz abbandonato dal 90% della popolazione e dove sono rimasti 27 villaggi su un totale di 200.
Provate a cliccare su YouTube ‘Mines of Garzweiler’ a Immerath, per rendervi conto degli incredibili scempi che si stanno compiendo per continuare ad alimentare nel paese la generazione elettrica da carbone: con una quota di circa il 40%, per la maggior parte lignite. Che Angela Merkel, impropriamente indicata come ‘Climate Chancellor’, a capo del paese più inquinante d’Europa – col doppio delle emissioni di Francia, Italia, Regno Unito – abbia avuto la faccia tosta di rimproverare Donald Trump quando a giugno del 2017 espresse l’intenzione di ritirarsi dall’Accordo di Parigi, una decisione ebbe a dire “extremely regrettable, to say the least”, nonostante gli Stati Uniti vadano riducendo le emissioni più della Germania e nonostante l’acquisita sua impossibilità di rispettare gli obiettivi di decarbonizzazione che si è data, la dice lunga sull’ipocrisia politica che impera a Berlino nell’intera questione climatica. In poche parole: una classica azione da free-rider: avvantaggiarsi dell’azione altrui senza pagar dazio.
Un’ultima considerazione: che il resto d’Europa e soprattutto Bruxelles abbiano inteso tacere sulla vergogna della lignite tedesca, per timore o per opportunismo, la dice lunga su chi anche nell’energia governa a Bruxelles e sul fatto che gli ambiziosi obiettivi di riduzione delle emissioni che l’Unione si è formalmente data siano più virtuali che reali.
Estratto di un articolo pubblicato su RivistaEnergia