C’è un giudice a Palazzo Spada. Il Consiglio di Stato ha annullato la sentenza n. 249/2021 del Tar di Lecce che prescriveva lo spegnimento dell’area a caldo dell’ex Ilva di Taranto e la fermata degli impianti connessi. La procedura era iniziata con un’ordinanza del sindaco della città che chiedeva lo spegnimento di una parte consistente della struttura produttiva. Arcelor Mittal aveva impugnato l’ordinanza davanti al Tar, il quale ne aveva riconosciuto la legittimità. Di qui il ricorso al Consiglio di Stato che ha cassato la sentenza di primo grado.
L’attività produttiva proseguirà quindi con regolarità, anche se in regime di confisca come disposto nella sentenza della Corte di Assise di Taranto. Sono corrette e importanti le motivazioni che stanno alla base della decisione del massimo organo della giustizia amministrativa. “L’istruttoria procedimentale e quella processuale non evidenziano un pericolo ‘ulteriore’ rispetto a quello ordinariamente collegato allo svolgimento dell’attività produttiva dello stabilimento industriale e gestito attraverso la disciplina dell’Autorizzazione Integrata Ambientale”.
Questo è un aspetto cruciale della vicenda giudiziaria iniziata nel 2012, con una serie di incursione della procura tarantina che – paradossalmente – in nome del risanamento ambientale, e di intesa con le autorità politiche, ha fatto di tutto per impedire la realizzazione delle misure di volta in volta adottate per rendere più sostenibile la produzione. Quale è il punto emerso con chiarezza fin dall’inizio quando il ministro pro tempore Corrado Clini intervenne alla Camera dopo il sequestro dello stabilimento e dei prodotti finiti come prova del reato? Uno stabilimento siderurgico al pari di ogni altra attività produttiva non è tenuto a trasformarsi in una enorme serra fiorita, ma a rispettare le norme vigenti in materia di sicurezza ed lavoro e di salvaguardia dell’ambiente.
E’ ormai da alcuni decenni che le tecnologie di produzione industriale nella UE sono stabilite sulla base degli obiettivi di protezione della salute identificati a livello europeo d’accordo con l’Organizzazione mondiale della sanità. Ma, nello stabilire questi parametri, gli obiettivi di risanamento ambientale non possono non essere compatibili con altre esigenze riguardanti i diversi settori produttivi, come i problemi di ammortamento degli impianti, di risorse da investire, di coordinamento tra i diversi Paesi. Soprattutto, i sistemi produttivi hanno necessità di avere dei riferimenti precisi ai quali attenersi per essere considerati in regola.
Per comprendere questo fondamentale concetto, messo in discussione a Taranto, basta ricordare che l’industria automobilistica europea è stata obbligata, in più di 30 anni, a cambiare drasticamente le tecnologie motoristiche, al pari dell’industria di raffinazione per quanto riguarda i combustibili con l’obiettivo di tutelare l’ambiente e la salute. Ma il cambiamento è proceduto per gradi sulla base di regole uniformi che divenivano di volta in volta non l’indicatore di una sicurezza assoluta, ma uno standard sostenibile e progressivo a cui attenersi in un quadro di certezza del diritto. A prova di quanto affermato basti pensare che proprio in queste stesse ore il ministro Enrico Giovannini, un cultore della sostenibilità al punto di aver operato per introdurre questo principio nella Costituzione, ha dichiarato che dal 2040 saranno immatricolate solo auto elettriche.
Se una procura pretendesse che un’azienda dell’automotive bloccasse dall’oggi al domani la produzione di vetture ad idrocarburi per imporre loro di riconvertirsi all’elettricità, dopo aver accertato un aumento abnorme delle polveri sottili in città (quelle che davvero si respirano senza accorgersene), non sarebbe presa sul serio e andrebbe incontro a feroci proteste popolari (ricordate i ‘’gilet gialli’’?), magari con l’appoggio solidale (è accaduto sotto i nostri occhi) di quanti in Italia volevano trasformare l’ex Ilva in un Luna Park.
Non è un caso che i magistrati di Taranto non vogliono riconoscere che l’ex Ilva fosse adempiente alle normative vigenti. Tanto che sono stati condannati sia l’ex governatore Nichi Vendola sia l’ex direttore generale dell’Agenzia regionale dell’ambiente, con l’accusa il primo di concussione implicita per aver indotto il secondo a certificare lo stato di conformità alle leggi dello Stabilimento; circostanza negata dal secondo, il prof. Claudio Assennato, accusato per questo motivo di favoreggiamento del primo. Ma il Consiglio di Stato è andato oltre: ha riconosciuto l’importanza strategica dello stabilimento e della produzione di acciaio, anche in vista del PNRR e della mission della ‘decarbonizzazione’. Non ha esitato a valutare in termini di Pil e di occupazione, la chiusura dell’opificio, tanto più che ora è tornato nell’orbita dello Stato (con le risorse dei cittadini).