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Exxonmobil

Perché Exxon e Shell non sprizzano felicità

L'articolo di Giusy Caretto

 

Rivoluzione verde in vista per ExxonMobil e Shell. Ma non per piani industriali redatti dai board delle aziende.

La prima si confronterà in modo più concreto con l’avanzamento delle rinnovabili per volontà del neonato fondo Engine No.1, la seconda, invece, dovrà farlo per una sentenza dell’Aia che ha imposto alla Big oil di ridurre le emissioni di Co2 entro il 2030 del 45% rispetto al 2019. Andiamo per gradi.

COSA E’ ACCADUTO IN EXXONMOBILE

Partiamo dalla compagnia petrolifera statunitense. Nonostante le resistenze del top management, il fondo Engine No.1 è riuscito ad inserire nel nuovo board di Exxon due direttori che, in nome del cambiamento climatico, chiedono alla società di puntare alle energie rinnovabili, rimodulando e rivedendo gli investimenti degli ultimi anni (sempre concentrati sulle fossili).

Engine No.1 aveva presentato una lista di quattro esponenti dissidenti per il board: Gregory Goff, ex Ceo di Andeavor; Kaisa Hietala, ex vp di Neste; Alexander Karsner, ex alto funzionario del Dipartimento dell’Energia e strategist di Google X e Anders Runevad, ex Ceo di Vestas Wind Systems.

I DUE NUOVI DIRETTORI

Ad essere eletti Goff e Hietala, nonostante il riconteggio dei voti voluto dal top management di Exxon.

Gregory J. Goff è l’ex amministratore delegato di Andeavor, che sotto la sua guida ha avviato una trasformazione finanziaria che ha portato l’azienda a generare un rendimento totale di oltre il 1.200%. Ha ricoperto varie posizioni di leadership presso ConocoPhillips per quasi 30 anni ed è stato Vicepresidente esecutivo di Marathon Petroleum Corporation.

Kaisa Hietala è ex vicepresidente esecutivo dei prodotti rinnovabili presso Neste,  esperta di trasformazione strategica nel settore energetico, con particolare focus alle rinnovabili. E’ partner e co-proprietaria di Gaia Consulting, una società di consulenza aziendale sostenibile incentrata sull’aiutare le aziende a trasformare le sfide climatiche in opportunità di business redditizie.

Entrambi auspicano l’adesione della Big Oil alla transizione energetica e più investimenti nelle energie rinnovabili.

GLI ALLEATI DEL FONDO

Engine No.1 detiene solo lo 0,12% di Exxon, ma da tempo si batte con la società per delle politiche più green e in occasione dell’assemblea, scrive il Sole 24 Ore, è riuscito a trovare importanti alleati, quali il californiano Calpers, il gestore britannico Lgim, il leader della consulenza agli azionisti ISS e BlackRock, secondo maggiore azionista di Exxon dietro Vanguard, che avrebbe votato per tre dei quattro candidati alternativi nel consiglio di amministrazione.

LA POLITICA DI EXXON (FINO AD OGGI)

Exxon, nonostante la transizione energetica in atto, ha continuato ad investire in nuova esplorazione e estrazione di greggio, senza fissare alcun obiettivo di emissioni zero per i prossimi anni.

UNA BATTAGLIA COSTOSA

L’entrata dei due direttori dissidenti, è costata ad Engine No.1 30 milioni. Per contrastare la rivolta, invece, Exxon Mobile ha speso (e perso) 35 milioni di dollari.

TITOLO FIACCO

Le azioni della Big Oil, in questo 2021, restano del 17% sotto i livelli di gennaio 2020 e il titolo, la scorsa estate, è uscito dal Dow Jones. Dal 2013 ad oggi ha bruciato centinaia di miliardi.

COSA E’ ACCADUTO A SHELL

Anche la concorrente Royal Dutch Shell dovrà approcciarsi a politiche più green. È costretta da una condanna storica arrivata dalla corte distrettuale olandese dell’Aia, in cui si chiede alla società di allinearsi agli Accordi di Parigi sul clima.

“Le imprese hanno una responsabilità indipendente, che prescinde da quello che fanno gli Stati”, ed è quella di “rispettare i diritti umani”, ha stabilito l’Aia. Ed è per questo che la Big Oil, entro il 2030 dovrà ridurre del 45% (rispetto al livello del 2019) le emissioni di CO2 dell’intero gruppo, dei suoi fornitori e dei suoi clienti. Ad intentare la causa è stata l’associazione Amici della Terra, di concerto con 6 ong, tra cui Greenpeace e ActionAid, e 17mila cittadini olandesi.

UNA SENTENZA IMPORTANTE

E’ una sentenza storica: un tribunale impone, per la prima volta, ad un’azienda privata degli obiettivi green.

“Senza dubbio si tratta di uno sviluppo significativo nel contezioso globale sul clima e potrebbe risuonare nelle aule giudiziarie di tutto il mondo”, commenta Michael Burger, direttore del Sabin Center for Climate Change Law della Columbia Law School, secondo quanto riporta il Sole 24 Ore.

COME SI MUOVE SHELL

Ad oggi, la società si è solo impegnata nel ridurre la produzione totale di idrocarburi attraverso dismissioni, e a ridurre le emissioni a privilegiare il gas. Per il petrolio, invece, Shell ha deciso di non superare mai più i livelli di estrazione del 2019.

IN BALLO (ANCHE) IL FUTURO DELLE ALTRE MAJOR

Quanto accaduto a Exxon e Shell pesa anche sul futuro delle altre compagnie di settore.

Secondo Moody’s  il rischio di credito è aumentato:  le due vicende “rappresentano un significativo cambiamento di panorama per le compagnie, che finora avevano prevalso nelle aule dei tribunali e in genere erano riuscite a respingere le mozioni più significative degli azionisti su questioni legate al clima”.

QUANTO COSTA LA TRANSIZIONE ENERGETICA

Certo è che adeguarsi agli accordi di Parigi ed avviare la transizione energetica, però, ha un costo non di poco conto per le major del petrolio. Secondo quanto calcolato dal Sole 24 Ore, infatti le Big Oil dovrebbero ridurre la produzione di 4,5 milioni di barili al giorno, ovvero un taglio pari a circa la metà di quello effettuato dall’Opec Plus al picco della pandemia.

Exxon, Chevron e ConocoPhillips, più le europee Shell, Bp, Eni e Total, in particolare, dovrebbero complessivamente diminuire del 35% le estrazioni di petrolio e gas entro il 2040. Tra le sette solo Bp, nel piano strategico, si impegna ad una riduzione di idrocarburi calerà del 40% entro il 2030.

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