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Big Oil

La nuova guerra fra Petrostati. Report

Le ultime novità sui Petrostati nell'analisi di Amy Myes Jaffe (Council on Foreign Relations). L'articolo di Marco Orioles

Nel mondo – checché ne pensi e dica Greta Thunberg – non solo non c’è mai stato tanto combustibile fossile in circolazione come oggi, ma le scoperte di nuovi pozzi e giacimenti di gas e petrolio procedono a tamburo battente un po’ ovunque, col risultato di allargare il campo dei cosiddetti “Petrostati” ad attori nuovi di zecca ubicati soprattutto nella parte Sud del pianeta.

È con questa premessa che si apre l’interessante saggio di Amy Myers Jaffe apparso qualche giorno fa sul sito del Council on Foreign Relations di New York, dove l’autrice ricopre l’incarico di Senior Fellow for Energy and the Environment.

È una premessa, quella di Jaffe, suffragata da numerosi esempi. Appena il 7 gennaio scorso, ricorda la ricercatrice, Total e il suo partner Apache hanno annunciato di aver scoperto un nuovo estesissimo giacimento petrolifero al largo delle coste del Suriname, non lontano dal giacimento offshore scoperto l’anno scorso nei pressi della Guayana dai rivali di ExxonMobil.

Risale a tre mesi prima invece la scoperta, da parte della britannica BP, di un maxi giacimento al largo delle coste della Mauritania dove attende di essere estratto l’equivalente di 1,3 miliardi di barili di petrolio: un quantitativo sufficiente a trasformare il non certo danaroso stato africano in un hub per la distribuzione di LNG dalle grandi potenzialità.

E se di gas naturale liquefatto si sta parlando, è doveroso richiamare anche i 3,9 miliardi di dollari investiti da Total per rilevare una quota di un progetto in Mozambico che punta ad esportare un quantitativo tale di LNG da far impallidire le attuali, modestissime cifre del Pil di questo altro paese del continente africano.

Fatta questa premessa, Jaffe ne introduce subito una seconda che è destinata a smorzare gli entusiasmi dei paesi candidati a entrare nel novero dei produttori. E il punto che la ricercatrice ha inteso sottolineare è esplicitato sin dallo stesso titolo dell’articolo della studiosa, “Striking Oil Ain’t What It Used to Be”.

Ciò che Jaffe vuole evidenziare è che le scoperte descritte sopra e tutte le altre fatte in giro per il mondo negli ultimi tempi non preludono necessariamente, per i Paesi interessati, ad una “bonanza” paragonabile a quella che nei decenni passati ha inondato di petrodollari le casse dei produttori storici.

Il perché di tutto ciò è presto detto e ha strettamente a che fare con le attuali tendenze del mercato dell’energia.

Un mercato i cui principali attori stanno rapidamente adattando le proprie strategie ad una dinamica di prezzi in continuo decremento da un lato e, dall’altro, alla competizione sempre maggiore esercitata dalle energie rinnovabili che, come sappiamo, sono anche la nuova frontiera del politicamente corretto.

Il risultato dell’incrociarsi di queste due variabili è, ricorda l’analista, che le compagnie tendono ora a rifuggire da investimenti a lungo termine anche in giacimenti dalle estese potenzialità, concentrandoli invece nei soli progetti che possano essere immediatamente tesaurizzati avviando subito la produzione e immettendo nel più rapido tempo possibile nel mercato il gas e il petrolio rinvenuti.

Dal punto di vista di Paesi come Suriname, Guayana, Mauritania, Mozambico e degli altri che sono stati recentemente baciati dalla fortuna, tutto ciò significa una cosa molto semplice, vale a dire – come scrive Jaffe – che per loro è cominciata una vera e propria “corsa contro il tempo”.

Per questi Paesi, l’unica prospettiva di ricavare profitti dalle scoperte energetiche recenti è infatti rappresentata dalla volontà – niente affatto scontata – delle compagnie di mettere subito a pieno regime la produzione dai nuovi giacimenti nel contesto di piani di investimento a breve termine che sono i soli, in questo momento, a suscitare l’interesse di investitori che tendono ormai a rifuggire dalle incertezze del lungo termine.

Questo, sicuramente, è il caso della Guayana, dove ExxonMobil ha impresso un’accelerazione ai propri progetti votati a estrarre e commercializzare quel che è stato rinvenuto nel nuovo giacimento. Altrettanto sta accadendo in Mozambico, dove Total sembra essere riuscita a convincere un azionariato sempre più diffidente a sostenere i piani per l’esportazione di LNG.

Anche così, tuttavia, le prospettive dei nuovi produttori rimangono incerte, dovendo fare i conti anzitutto con la poderosa competizione degli Usa, la cui crescente produzione ed esportazione di energia fossile ha assorbito, se non tutta, sicuramente una parte preponderante della domanda globale in un trend di cui molti analisti vedono la prosecuzione anche negli anni a venire.

E non ci sono solo gli Usa a guastare le ambizioni dei nuovi candidati allo status di petrostato. Nel conto bisogna mettere anche le strategie di produttori come la Norvegia e il Canada, di Paesi cioè che non solo continuano a fare nuove scoperte, ma hanno anche a disposizione tecnologie innovative che hanno l’effetto di abbattere i costi di estrazione.

E poi c’è un ultimo, micidiale guastafeste per i produttori emergenti e si chiama energie rinnovabili o, se si preferisce, cambiamento climatico. Magari non lo fanno per gratificare Greta Thunberg, ma è certo che il numero di Paesi che si ripromette di uscire quanto prima dall’era fossile e ha in atto piani per aumentare l’impiego delle rinnovabili è in aumento e conta, al suo interno, mercati sterminati come quello europeo, cinese e indiano.

Va poi ricordato come le medesime motivazioni stiano inducendo le maggiori istituzioni finanziarie internazionali, come la Banca Mondiale o la Bei, a cessare la consolidata pratica di mettere somme considerevoli a disposizione di progetti volti ad aiutare i paesi emergenti a sfruttare le proprie risorse fossili.

Ancora qualche anno, insomma, e saranno un lontano ricordo i 21 miliardi di dollari usciti dalle casse della Banca Mondiale tra il 2014 e il 2018 sotto forma di prestiti o altri titoli di garanzie per progetti legati al fossile.

Tirando le fila di questa analisi, Joffe ne ricava una conclusione che possiamo senz’altro fare nostra: “alla fine, saranno i mercati a determinare quali nuove scoperte saranno sfruttate e quali invece rimarranno sepolte sottoterra o sott’acqua”.

Ciò significa, nel secondo caso, che per chi li ha scoperti dentro casa recentemente, quello del petrolio e del gas si rivelerà una mera chimera e invece, nel primo caso, che l’auspicato flusso di petrodollari dipenderà da una accesa quanto inesorabile competizione con i produttori esistenti.

Ed accedere a questo club esclusivo – è la chiusa di Joffe – significa entrare in un’arena dove i produttori storici, che da sempre fanno il bello e il cattivo tempo, faranno sudare sette camicie i nuovi petrostati desiderosi di ritagliarsi almeno una piccola fetta della grande torta dell’energia.

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