La concorrenza impallidisce dinanzi ai volumi della produzione cinese di acciaio, che con un miliardo di tonnellate l’anno sono pari alla somma di quelli del resto del mondo. E se, per effetto di una normativa protezionista in vigore un po’ ovunque, quell’enorme massa di acciaio resta comunque in gran parte nel Paese, la sua esportazione è in continua crescita dal 2000 fino a superare quest’anno, secondo le stime delle dogane cinesi, il livello record di cento milioni di tonnellate. Ecco cosa scrive l’Economist in un focus che fa il punto sulla overcapacity cinese in un settore nevralgico dell’economia globale.
In coro
Accusata di fare dumping a go go, scrive l’Economist, l’industria del Dragone è oggetto del risentimento dei principali competitor, che patiscono le conseguenze di tale invadenza.
Nippon Steel, il più grande produttore giapponese, ha lamentato un calo dei profitti dell’11% nel secondo quadrimestre di quest’anno, anche se per Arcelor Mittal il tonfo per lo stesso periodo è stato assai peggiore (-73%).
Non è la prima volta
L’Occidente per la verità non si trova di fronte a una vera e propria novità. Almeno due volte, nel 2008 e nel 2015, si è trovato a fare i conti con un’ondata di acciaio cinese che ha innescato sempre la stessa reazione, ossia l’elevazione di barriere commerciali.
Tra il 2008 e il 2018 si sono contate, secondo il calcolo della testata britannica, oltre 500 misure protezionistiche implementate da Usa, Ue, Gran Bretagna e Canada.
L’odierna sfida si consuma tuttavia in circostanze diverse, con un’economia cinese in sofferenza e forti riverberi nel settore immobiliare che hanno danneggiato proprio i produttori di acciaio.
I risultati si misurano anche nel calo dei prezzi, scesi del 16% l’anno scorso. Nonostante ciò si è deciso di non tagliare lo stesso la produzione che inesorabilmente prende la via dell’estero.
La reazione
L’Occidente non è rimasto a guardare, come dimostrano i dazi introdotti il mese scorso dal Canada.
Ai dazi già in vigore da tempo sull’acciaio cinese, gli Usa ne hanno aggiunto a luglio uno nuovo del 25% sull’acciaio importato dal Messico per evitare che da quella porta si intrufolasse quello cinese.
Non solo in Occidente
Ma la reazione non è confinata al solo Occidente. Stavolta anche i Paesi emergenti stanno prendendo le contromisure, denunciando quella che ad agosto il numero uno dell’indiana Tata Steel Thachat Viswanath Narendran ha definito la “politica predatoria dei prezzi” da parte delle aziende di Pechino”.
Il governo a Dehli ha introdotto così un dazio del 30% su alcuni prodotti cinesi a base di acciaio, e analoghi provvedimenti sono stati presi da Brasile, Messico, Thailandia e Turchia.
Persino il Vietnam, che con 9 miliardi di tonnellate importate nel 2023 è il maggior acquirente dell’acciaio cinese, sta svolgendo delle indagini antidumping.
La strategia cinese sull’acciaio
Ma i produttori cinesi non stanno con le mani in mano e sono alla ricerca di nuovi mercati. Alcuni di loro adesso puntano anche a delocalizzare la produzione.
A luglio la più grande azienda del settore a livello globale, China Baowu Steel, ha raddoppiato il proprio investimento per un impianto nuovo in Arabia Saudita mentre nello Zimbabwe è diventata operativa un’acciaieria costruita con i capitali dello Tsingsahn Group.