La saga di Nippon Steel è una rappresentazione eloquente dell’epoca del capitalismo politico: dei suoi vincoli, delle sue contraddizioni, delle sue ipocrisie.
L’inizio formale della saga avviene a metà dicembre 2023, con l’annuncio di un accordo da parte dell’azienda giapponese Nippon Steel per l’acquisizione del produttore statunitense di acciaio U.S. Steel per circa 15 miliardi di dollari. Un anno e sei mesi dopo, alla fine di maggio 2025, sembra essere giunta una svolta, con il presidente degli Stati Uniti Donald Trump che ha dato in questi giorni la sua provvisoria benedizione all’operazione, descrivendola non come un’acquisizione totale ma una “partnership” con grandi benefici.
L’accordo fa parte del consolidamento del settore siderurgico globale, che vive nuove sfide legate ai prezzi, alla sostenibilità ambientale e alla crescente presenza di attori dominanti: Cina e India. Con l’acquisizione, Nippon Steel si posizionerebbe come il secondo produttore di acciaio al mondo, dopo il gruppo cinese a controllo statale Baowu Group. La Cina produce circa metà dell’acciaio del pianeta.
A fine 2023, dopo l’annuncio dell’acquisizione, è subito iniziato un dibattito politico negli Stati Uniti, con forti critiche bipartisan. Senatori democratici come Sherrod Brown, John Fetterman e Chris Deluzio, così come i repubblicani Marco Rubio, J.D. Vance e Josh Hawley, hanno ventilato preoccupazioni legate alla sicurezza nazionale e alle implicazioni economiche della vendita di una storica azienda a un Paese straniero, sebbene alleato. Lo stesso presidente Biden sollecita, o meglio impone, un’analisi severa da parte del CFIUS (Committee on Foreign Investment in the United States).
Quale sarebbe il pericolo di sicurezza nazionale di un’acquisizione giapponese nell’acciaio, una volta che si garantiscono le forniture e i posti di lavoro? E perché la vendita di un’azienda con una storia gloriosa ma un presente e un futuro incerto dovrebbe essere per forza un rischio di sicurezza nazionale? È sempre stato difficile identificare un contenuto tecnologico specifico e innovativo in U.S. Steel che richiedesse la salvaguardia della proprietà americana. Nippon Steel, nell’occhio del ciclone di un dibattito politico-elettorale, ha cercato di mitigare le critiche impegnandosi a investire miliardi di dollari per modernizzare gli impianti, mantenere o aumentare la capacità produttiva interna.
La questione cinese ha giocato un ruolo significativo nella vicenda. Gli strumenti di scrutinio degli investimenti esteri negli Stati Uniti sono stati e sono utilizzati soprattutto in ottica anti-cinese, in questa fase storica. La durezza verso i giapponesi, nella prima fase delle trattative, è divenuta una leva per far interrompere le joint venture e le operazioni di Nippon Steel con la Cina.
Con l’avvicinarsi delle elezioni presidenziali del novembre 2024, il caso U.S. Steel/Nippon Steel è rimasto in bilico: non si riesce a risolvere temi del genere, quando ci sono di mezzo le elezioni.
A fine 2024, tra proroghe e rinvii, l’entourage di Biden ha fatto filtrare l’arrivo di un ordine esecutivo presidenziale per bloccare l’acquisizione, e in effetti il blocco è arrivato il 3 gennaio 2025: un’altra mossa con cui l’amministrazione uscente è intervenuta in modo pesante e scomposto a gennaio, come avvenuto per le regole sull’intelligenza artificiale. A seguito del blocco, Nippon Steel e U.S. Steel hanno deciso di intraprendere azioni legali contro il governo statunitense, contestando la procedura sulla base dell’abuso dell’autorità presidenziale sulla sicurezza nazionale. I sindacati hanno invece appoggiato la decisione di Biden.
Il ritorno di Donald Trump ha rimescolato le carte. Trump in campagna elettorale ha espresso forte opposizione all’acquisizione, definendola “orribile” e promettendo di bloccare tutto. Trump alla Casa Bianca invece si è ammorbidito dopo gli incontri con le autorità giapponesi e dopo le promesse di investimenti fino a 14 miliardi da parte di Nippon Steel. Trump punta a intestarsi gli investimenti e i posti di lavoro e, appunto, non parla di “acquisizione” ma di partnership. Alcuni dettagli sono ancora fumosi, e nel progetto aleggia – col sentore di epoche passate, in realtà mai tramontate – l’ipotesi di una “golden share” del governo di Washington, forse in relazione al progetto del fondo sovrano statunitense.
La lunga saga dimostra già che il capitalismo politico, con l’uso strumentale della sicurezza nazionale come una clava anche quando non c’entra nulla, non è un sistema di certezza del diritto. È una variabile che aumenta l’incertezza. E che tutti dovranno comunque continuare a considerare.