Lo strumento mediante il quale il sistema finanziario intende perseguire la sostituzione epocale delle fonti energetiche e mutare l’attuale assetto sociale sono i fondi ESG.
Gli investimenti nei titoli ESG sono stati incentivati dalla crisi finanziaria del 2008. La principale giustificazione per tali investimenti è che le imprese che credono nel cambiamento climatico possono generare rendimenti più elevati per gli investitori: questa tesi è stata molto criticata. Sebbene commercializzato come strumento di analisi del rischio climatico, l’ESG non è tale (Edmans, 2023). Chi investe nei fondi ESG sostiene la decarbonizzazione delle società occidentali e sfavorisce le compagnie dei combustibili fossili. Se gli investimenti in petrolio e gas dei produttori occidentali vengono limitati, l’ESG aumenta il potere di mercato dei produttori non occidentali (Russia, Cina), consentendo una rivalutazione delle fonti energetiche di questi ultimi con grave danno per le economie e la sicurezza dell’Occidente.
Sembra che la doppia finalità degli ESG – aumentare i rendimenti degli azionisti e rendere il mondo un posto migliore – non sia raggiungibile. Sebbene l’insuccesso degli ESG come strategia di investimento sia diventato inequivocabile, la dottrina politica che li sostiene continuerà fino a quando non ci sarà un nuovo approccio politico, neutrale. Come ha fatto, ad esempio, il Ministro delle finanze tedesco Christian Lindner a settembre 2023, che ha criticato i politici di Bruxelles per aver cercato di varare norme più severe sull’efficienza energetica degli edifici, avvertendo che tali piani potrebbero scatenare una pericolosa reazione e mettere a rischio la pace sociale.
Già nel 2022 si è verificata la prima crisi degli ESG. Molti osservatori finanziari hanno asserito che gli investimenti ESG sono tornati nel mondo reale (Darwall, 2022): il fondo ESG di BlackRock ha perso il 22,2% del suo valore, mentre l’indice S&P 500 Energy Sector (che tratta le fonti energetiche tradizionali) è salito del 54%. Le politiche ESG di BlackRock hanno fatto recedere molti investitori per miliardi di dollari. Il gruppo Vanguard, secondo gestore mondiale di fondi (7,2 trilioni di dollari), si è ritirato dalla GFANZ.
Un aspetto particolare, ma comunque interessante, è venuto alla ribalta in seguito all’approvazione di una legge da parte del Senato del Texas nel maggio 2023: il disegno di legge n. 833, che tende ad impedire agli assicuratori di considerare i criteri ESG quando determinano i premi per quasi tutte le forme di assicurazione. Il disegno di legge afferma che i fattori ESG non si basano su «sani principî attuariali». La previsione dell’aumento degli eventi estremi, e quindi l’aumento dei premi da pagare alle assicurazioni, è l’argomento al quale sono più affezionate le compagnie assicurative. L’interesse risale all’episodio dell’uragano Katrina. L’uragano Katrina, del 2005, è costato all’industria delle assicurazioni immobiliari 40 miliardi di dollari. Le assicurazioni hanno subito cercato di recuperare la cifra, aggiornando i premi, semplicemente facendo appello al “consenso” scientifico sul mutamento climatico, che sempre più spesso viene invocato per qualsiasi evento negativo che capita alla società umana. Un mese dopo il disastro di New Orleans, la RMS Insurance, specializzata nel settore immobiliare, incaricò quattro “esperti” di uragani: un modellista di previsioni dell’attività dei cicloni tropicali; un sostenitore del legame tra riscaldamento globale e pericolosità di questi eventi; un fisico, fondatore di una società di consulenza assicurativa sui rischi da eventi atmosferici; un fisico che metteva in relazione il riscaldamento globale con l’aumento dei danni e quindi dei costi da esso provocati.
I modellisti dell’RMS stimarono la possibilità di uragani nel quinquennio 2006-2010, sugli Stati Uniti meridionali, del 30% sopra la media climatica. In questo modo l’RMS, e altre compagnie assicuratrici, hanno potuto adeguare i premi, non a quello che è accaduto ma a quello che sarebbe potuto accadere, per la modica cifra di 82 miliardi di dollari (più del doppio del costo dell’uragano Katrina). Un uragano c’è stato, ma di dollari (Guidi, 2010). Questo è il motivo per cui qualsiasi lavoro scientifico che metta in dubbio l’aumento degli eventi estremi viene rifiutato o boicottato (Alimonti et al., 2022).
Se si toglie questa scusa cade una parte rilevante dell’economia climatica: quella delle assicurazioni. I lavori, come quello di Patrick Brown, che attribuiscono i disastri al cambiamento climatico antropogenico, vengono invece pubblicati su riviste prestigiose. Peraltro nessuno è riuscito a dimostrare in modo affidabile che sia possibile fare delle previsioni che superino la media climatologica (Pielke, 2009). Un’altra multinazionale delle assicurazioni, la Munich Re, insieme con le Nazioni Unite, ha condotto un’analisi sullo stesso problema. Ne è scaturito un grafico che riporta l’andamento globale (dal 1990 al 2012) in netta diminuzione dei danni causati da eventi atmosferici estremi in rapporto al PIL globale (Pielke, 2013). Gli eventi non sono aumentati, ma gli introiti sì. Un’analisi che approfondisce questo argomento è quella di Neumayer e Barthel (2011), i quali concludono: «Finora non ci sono prove che il cambiamento climatico abbia aumentato la perdita economica normalizzata derivante dai disastri naturali». Inoltre, se si va sul sito EM-DAT, The International Disaster Database, si riscontra che i decessi annui per eventi severi di natura climatica (inondazioni, siccità, tempeste, temperature estreme, etc.) sono progressivamente diminuiti da circa 490.000 all’anno nel 1920 a 15.000 nel 2020. Questi dati vengono ignorati dai sacerdoti del clima.