Ti abbiamo messo là per salvare il mondo o fare profitti? È questa la domanda a cui Hein Schumacher, amministratore delegato dell’Unilever, gigante mondiale dei beni di largo consumo, ha dovuto rispondere. La domanda proveniva dai suoi azionisti non esattamente contenti dei risultati del conglomerato anglo-olandese da 118 miliardi di dollari di fatturato.
E la risposta ha lasciato poco spazio a dubbi. In 44 minuti di conversazione con Bloomberg ha usato la parola “performance”, riferita agli aspetti economico – finanziari, per ben 15 volte. Una ogni 3 minuti.
Stiamo parlando della società che da più di un decennio ha fatto degli impegni relativi ai fattori ESG un manifesto. Ci ha costruito una strategia. Ma oggi ammettono candidamente che quelli erano quasi dei diversivi, qualcosa fatto per non annoiarsi quando tutto andava bene e bisognava trovare dei motivi di attrazione agli occhi degli investitori e dei media.
Poi, con pandemie, lockdown e guerre varie in giro per il mondo, il gioco si è fatto duro, la concorrenza di Nestlé ha cominciato a mordere, e il tempo (e i soldi) per obiettivi fumosi, non misurabili e non realizzabili è finito. Così oggi Schumacher ha deciso di fare macchina indietro su tutto un insieme di obiettivi diversi da quelli economico – finanziari, finendo sotto i riflettori anche perché altre aziende seguiranno da vicino Unilever.
E così è partito un bel taglio netto all’obiettivo di dimezzare l’uso della plastica negli imballaggi (ridotto ad un taglio di 1/3). Ridimensionati gli impegni sul salario minimo, così come quelli di spesa verso le aziende che diversificano o anche quello di assumere una percentuale di disabili. Sparita dai radar anche l’attenzione alla diversità razziale. Tutto ridimensionato.
ESG O PROFITTI?
Un cambio di paradigma epocale per un gruppo che aveva lo scopo di “salvare il mondo”, che alcuni analisti oggi attribuiscono anche alla paura di essere accusati di “greenwashing”, cioè dare una bella verniciata di “green” dappertutto solo per salvare le apparenze. In altre parole, l’impossibilità di raggiungere alcuni obiettivi, ha indotto Schumacher a mettere le mani avanti per non cadere.
Cose che accadono quando il tema ESG – la pretesa di salvare il pianeta e la società – era arrivato ad occupare ben 17 pagine dell’ultimo report annuale, posizionate ben prima dei dati finanziari cruciali.
Ora gli investitori chiedono solo una cosa: i profitti. Anche perché circa metà dell’azionariato è negli USA, dove sta crescendo una potente campagna anti fattori ESG, ritenuti colpevoli di danneggiare i rendimenti economico-finanziari e di essere solo surrettiziamente perseguiti.
C’è un tempo per tutto, ha concluso Schumacher. “In passato è stato possibile sognare un mondo ed avere grandi ambizioni, ma ora è il tempo di tornare indietro e pensare a ciò che si può concretamente realizzare. È necessario che la mia società sia performante”.
Questa clamorosa confessione si aggiunge ad un altro singolare caso di contestazione dei fattori ESG. Questa volta nel settore bancario europeo che si è scagliato contro l’eccesso regolatorio collegato ai fattori ESG. La notizia, apparsa sempre su Bloomberg qualche giorno fa, è che a lamentarsi sia addirittura la Federazione bancaria europea (EBF) – che riunisce 33 associazioni bancarie nazionali e rappresenta 3.500 banche – segno che la misura è ormai colma.
LE COLPE DELLA BCE
Ancor più clamoroso è il fatto che il destinatario delle proteste sia la Bce, ritenuta colpevole di esondare dall’ambito del suo mandato. Perché imporre alle banche – tramite l’erogazione del credito – di contribuire al raggiungimento dell’obiettivo di contenimento del riscaldamento climatico entro 1,5 gradi, significa semplicemente minacciarne la competitività. Anche e soprattutto perché a Wall Street non c’è alcuna traccia di tutto ciò, sotto la pressione dell’opposizione repubblicana che non vuole sentire nemmeno parlare di ESG. Soprattutto dopo la pietra tombale posta dal Presidente della Fed Jerome Powell con “la Fed non si occupa di politiche climatiche”.
Hanno quindi ragione in EBf a sostenere che “È uno strumento esclusivamente europeo”.
Infatti nell’Eurozona la Bce è da tempo in pressing asfissiante sulle banche affinché esse incorporino nella propria politica di accantonamenti la valutazione dei rischi climatici e, più in generale, i rischi connessi al credito concesso a favore di settori ad elevato livello di emissione di CO2.
E questo si traduce in minori utili e maggiori requisiti di capitale. Non deve quindi stupire che un banale confronto tra l’indice settoriale di Borsa di Wall Street ed europeo mostri un abissale divario tra le due sponde dell’oceano. Rispetto ad aprile 2014, oggi negli Usa l’indice è cresciuto del 25%, mentre in Europa siamo ancora a -7%, nonostante la significativa risalita dell’ultimo anno.
Le principali banche Usa quotano su valori di mercato nettamente superiori a quelli contabili, mentre in Europa giganti come Bnp Paribas e Deutsche Bank quotano a -30% e -50% rispetto ai valori di bilancio. E questo, sostengono gli analisti di Bloomberg, è, almeno in parte, fondato sul cosiddetto “rischio regolatorio”.
Da Ebf fanno notare come le regole per la determinazione del rischio climatico siano il regno della discrezionalità. Inoltre, e cosa ben diversa, il rischio collegato ai crediti concessi a settori ad elevata impronta di carbonio o, più in generale, la vulnerabilità ai fattori ESG, è un dato ancora più evanescente.
Insomma è un fenomeno difficilmente misurabile e quindi è solo pubblicità, peraltro costosa. Ma ciononostante la Bce insiste e rilancia. Soprattutto dall’anno scorso, quando in Bce hanno appreso che circa il 90% delle banche europee non stanno facendo abbastanza per contribuire alla lotta contro il cambiamento climatico. Da Francoforte hanno minacciato multe serie per le banche che non prendono sul serio i rischi connessi ai fattori ESG.
Ma il problema non è solo quello di una UE avviatasi in solitaria sulla strada della distruzione di valore delle proprie imprese, c’è anche un vulnus al processo democratico. Infatti, qualsiasi operatore economico conosce il diritto civile, il diritto penale e uno sterminato elenco di norme che regolano la propria attività. Tutte informate ai principi costituzionali. Per esempio, sa che non può inquinare, deve trattare i rifiuti in modo responsabile, deve rispettare i diritti dei lavoratori, deve garantire regole di governo societario trasparenti ed eque. E tanto dovrebbe bastare.
QUANTO PESANO GLI ESG PER LE IMPRESE
Da quando la Commissione si è imbarcata nella crociata dei fattori ESG, invece c’è bisogno di altro. L’imprenditore deve dare conto ai propri investitori e, più in generale ai portatori di interessi, circa il rapporto con i fattori ESG. E deve farlo seguendo degli standard di rendicontazione della sostenibilità (ESRS, ben 12 codici di comportamento) che hanno recentemente integrato la direttiva sul report di sostenibilità (Csrd). Il processo di definizione di questi standard è avvenuto a livello esclusivamente tecnico, perché non se n’è occupata nemmeno la Commissione. È opera di un organo consultivo (Efrag, di cui paradossalmente è membro anche la Efb che oggi si lamenta) che la Commissione finanzia copiosamente e che si è sempre occupato dalla definizione dei principi contabili per la redazione dei bilanci e, a fine 2022, ha consegnato alla Commissione la bozza che poi è stata adottata a luglio 2023.
È stato così surrettiziamente (sfidiamo qualsiasi europarlamentare a sapere cosa c’è scritto nei 12 principi che integrano la direttiva) introdotto un corpo di regole, con tanto di sanzioni, che però incidono su fattispecie già ampiamente disciplinate dal diritto positivo.
La chiusura di questo cerchio infernale avverrà quando, tra poco, le banche – proprio per sottostare alle richieste della Bce – condizioneranno il rating di solvibilità delle imprese alla valutazione dei fattori ESG. Altrimenti come faranno a dimostrare alla Bce di valutare e pesare correttamente tali fattori nei prestiti erogati? Ridurre l’esposizione del portafoglio crediti ai rischi ESG significherà migliorare la solidità e la stabilità della banca agli occhi della Bce.
Il tutto fondato su parametri di difficile misurazione, ampiamente discrezionali e di almeno dubbio (se non nullo) impatto sul cambiamento climatico, che negli USA hanno già smaltito nell’indifferenziato.
Al contrario, nella UE dobbiamo leggere la professoressa Livia Ventura della Luiss argomentare sul Sole 24 Ore del 18 aprile che “la Csddd (direttiva di prossima emanazione sulla dovere di diligenza delle imprese ai fini della sostenibilità) richiede alle grandi imprese l’adozione di un piano di transizione climatica e l’integrazione nelle politiche aziendali e nei sistemi di gestione del rischio di piani e strategie per individuare, monitorare, prevenire, attenuare o eliminare i danni a diritti umani e ambiente derivanti dalle operazioni dell’impresa, delle controllate e dei partner commerciali.
L’elemento di maggior rilievo è l’estensione della responsabilità civile per i danni derivanti dagli impatti negativi generati da società controllate e fornitori in caso di violazione degli obblighi di vigilanza. Ciò determina l’internalizzazione delle esternalità da loro prodotte. L’impresa diviene responsabile del loro comportamento, con la conseguente espansione dei confini dell’impresa al di là di quelli giuridici e di quelli tradizionalmente individuati dalle teorie economiche del XX secolo.”
Ci sentiamo di suggerire alla professoressa che l’unica conseguenza di tale delirio regolatorio è l’estinzione delle imprese per soffocamento burocratico, con impatto nullo sul cambiamento climatico.
Finirà come già accaduto con la famosa promessa di Mario Draghi (“volete il condizionatore acceso o la pace?”). Abbiamo spento il condizionatore, ma non abbiamo avuto la pace. Allo stesso modo, continuerà a fare caldo ma non avremo più le aziende.