skip to Main Content

Cop28

Le rinnovabili hanno ancora il vento in poppa?

Che cosa emerge da un approfondimento del settimanale The Economist sugli investimenti nelle energie rinnovabili

Alla Cop28 di Dubai è stato deciso di triplicare a livello globale la produzione di energia rinnovabile. Ma dopo la sua promettente ascesa negli ultimi dieci anni, quel settore è oggi penalizzato da una serie di problemi e strozzature che hanno paradossalmente prodotto aumenti anziché ribassi del costo di quell’energia. Ecco cosa scrive l’Economist su una promessa che rischia seriamente di andare delusa.

Il boom delle rinnovabili.

Pochi anni fa, scrive l’Economist, scoppiò il boom delle rinnovabili. Il prezzo dei pannelli solari e delle turbine eoliche è caduto man mano che la tecnologia maturava e i produttori costruivano le loro economie di scala.

Questi sviluppi hanno fatto sì che il costo livellato dell’elettricità per il solare, l’eolico onshore e quello offshore precipitasse rispettivamente dell’87, 64 e 55% tra il 2010 e il 2020.

Si sono moltiplicati anche gli investimenti fatti dai grandi investitori nelle infrastrutture come Brookfield e Macquarie, mentre altrettanto facevano i produttori di energia fossile come BP. Anche le utility come le europee EDP e Iberdrola e le americane AES e NextEra hanno lanciato progetti ambiziosi.

Il ritorno di capitale è salito dal 3% del 2015 al 6 del 2019, un livello simile a quello dell’estrazione di petrolio e gas, ma con meno volatilità. Le prospettive industriali apparivano così luminose che nell’ottobre 2020 il valore di mercato di NextEra ha brevemente superato quello di ExxonMobil.

Battuta d’arresto.

Molta di quella frenesia sembra oggi superata. Negli ultimi due anni l’economia delle rinnovabili è stata colpita da un numero di fattori come gli alti tassi di interesse, le strozzature nelle catene produttive, i ritardi nella concessione delle licenze e gli istinti protezionistici dei governi occidentali.

L’indice S&P Global Cleen Energy, che misura la performance del settore, è sceso del 32% negli ultimi 12 mesi, nonostante le borse mondiali siano cresciute dell’11%. NextEra vale oggi circa un terzo di ExxonMobil e i produttori di turbine eoliche continuano ad accumulare perdite.

L’impegno alla Cop28.

Ciononostante alla Cop28 di Dubai 118 Paesi si sono impegnati ad incrementare la loro capacità complessiva nelle rinnovabili di 11mila gigawatt entro il 2030 contro i 3.400 dell’anno scorso, e ciò significherà aggiungere 1.000 gigawatt l’anno.

Un insieme di fattori.

Tra i problemi che caratterizzano oggi il settore c’è quello dei costi crescenti lungo tutta la catena produttiva. Il costo del polisilicio ad esempio, ossia di un materiale chiave dei pannelli solari, è balzato dai 10 dollari al chilo del 2020 ai 35 del 2022. L’invasione Russa dell’Ucraina ha causato un drastico aumento del costo dell’acciaio, materiale indispensabile per costruire torri alte almeno 100 metri (ma nel 2018 GE ha terminato la costruzione di una turbina eolica alta quasi come la torre Eiffel).

Come se non bastasse, ci sono gli incidenti, come quello capitato a ottobre ad una turbina costruita dalla danese Vestas che ha preso fuoco in Iowa. I frequenti incidenti hanno aumentato i costi delle assicurazioni per le quali Vestas ha investito lo scorso anno 1,1 miliardi di dollari pari al 6% delle sue entrate.

Anche i costi di produzione delle attrezzature sono aumentati vertiginosamente. Combinati con gli alti tassi di interesse, gli aumenti dei costi hanno spinto all’insu del 50%, secondo il calcolo di BloombergNEF, il prezzo livellato dell’energia per i progetti eolici americani, e ciò nonostante i sussidi previsti dall’Ira, il programma sul cambiamento climatico della Casa Bianca.

Il risultato è che adesso gli impianti e i progetti languono tra i mancati profitti. In America i contratti vengono o cancellati o rinegoziati per produrre quasi la metà della capacità prevista inizialmente. Ed è persino capitato che un’asta indetta dal governo britannico per fornire energia eolica alla rete elettrica andasse deserta.

Burocrazia.

Nel conto vanno messe anche le lungaggini della burocrazia. In America ci vuole una media di quattro anni perché un parco di pannelli solari sia approvato e sei per un impianto eolico onshore. L’Ue ha giurato di ridurre a due anni i tempi di approvazione sui progetti per le rinnovabili, ma questo impegno rimane per ora solo sulla carta.

Protezionismo verde.

Questo quadro a tinte fosche è ulteriormente aggravato dal crescente protezionismo verde dei governi. L’Amarica ha di fatto tagliato fuori i produttori cinesi di energia solare, col risultato di raddoppiare i costi della realizzazione degli impianti.

L’Ira di Biden in teoria incentiva la produzione domestica, e aziende come First Solar, il più grande produttore Usa di moduli, pianificano ora di aumentare la propria capacità, che però non sarà sufficiente per centrare tutti gli obiettivi della decarbonizzazione.

L’Europa teoricamente ha rigettato l’ipotesi di misure antidumping contro i pannelli solari cinesi, ma la Commissione ora starebbe per lanciare un’indagine sui sussidi di Pechino ai suoi produttori di turbine, che stanno facendo incetta di contratti in tutto il mondo.

Il risultato di questa combinazione di fattori è il sensibile aumento del costo dell’energia rinnovabile, un paradosso su cui alla Cop28 si è preferito tacere.

Back To Top