Da alcune settimane i media americani evidenziano i record raggiunti dalla produzione nazionale di petrolio. La notizia è che gli Usa si avviano ad esportare più petrolio di quello che consumano pur essendo la nazione più ricca del pianeta.
Tutti i media sottolineano che il Texas arriverà a produrre addirittura più greggio dell’Iran o dell’Iraq e che – se lo considerassimo come una nazione indipendente – diventerebbe il terzo produttore di petrolio al mondo.
Ma da dove salta fuori quello che è già stato battezzato lo shale miracle, il miracolo dello shale? Per capirlo dobbiamo fare un passo indietro.
Lo “shale oil” – detto più propriamente “tight oil” – è il petrolio contenuto in matrici rocciose a bassa permeabilità. Sono fanghi e sedimenti argillosi formati in superficie ma poi trasportati in profondità dai movimenti geologici nel corso di milioni di anni. Se questi fanghi sepolti sono ricchi di materia organica, questa si decompone in assenza di ossigeno e – sempre nel corso di milioni di anni – dà origine a petrolio e gas che rimane intrappolato all’interno di una roccia estremamente poco porosa. La scarsa porosità è proprio quella che rende difficile l’estrazione con metodi convenzionali.
Per questo è necessario usare tecniche di sfruttamento particolari, come la fratturazione idraulica, meglio nota come “fracking”. In pratica, si aumenta la permeabilità del giacimento – e quindi la possibilità di estrarre gli idrocarburi che contiene – iniettando dentro i pozzi di trivellazione acqua ad alta pressione. Questa fa letteralmente scoppiare la roccia: produce fratture che si propagano all’interno della matrice argillosa creando, così, una rete di minuscoli percorsi dove passeranno le goccioline di petrolio e di gas per raggiungere il pozzo perforato ed essere così estratte. Per evitare che la roccia si richiuda dopo la fratturazione, all’acqua iniettata si aggiungono delle sabbie quarzose con granuli di dimensioni ben precise che si incastrano nelle crepe appena formate e impediscono a queste di richiudersi ermeticamente subito dopo.
La prima tecnologia di fracking – ora sviluppata ed estesa in tutto il mondo – è stata brevettata nel 1949 proprio per estrarre shale oil da alcuni giacimenti texani che prima non potevano essere sfruttati. Ma tirare fuori petrolio da questi giacimenti argillosi costa molto di più che estrarlo dai comuni (e più comodi) giacimenti ad alta porosità, dove il petrolio o il gas possono essere pompati fuori senza adottare tecniche così sofisticate. Per questo, gli Stati Uniti hanno scatenato la produzione di shale oil & gas proprio nel 2013-2014, quando il barile era ad oltre 100 $, per poi doverla drasticamente ridurre col crollo del prezzo del greggio degli anni successivi.
Infatti, mentre in Arabia Saudita, in Iran e in Iraq il costo di estrazione è inferiore a 10 $ al barile, estrarre lo shale oil degli USA costa più di 24 $ al barile. E se consideriamo i costi operativi, quelli di realizzazione degli impianti, le tasse, i costi di trasporto e raffinazione, i margini di guadagno per le compagnie si riducono all’osso o possono tramutarsi in perdite secche.
Negli ultimi mesi, il nuovo aumento del prezzo del barile di greggio (che ora si aggira fra i 70 e gli 80 $) e l’introduzione di tecniche di fracking sempre più perfezionate ed economiche, ha permesso quello shale miracle che nessuno riteneva possibile anche solo 10 anni fa.
Il risultato è che gli Stati Uniti producono più di 10 milioni di barili di petrolio al giorno per la prima volta dagli anni ’70.
I dati ufficiali EIA su cui gongolano tutti i commentatori americani, dicono che il divario tra importazioni di petrolio ed esportazioni si è ridotto a 6,8 milioni di barili al giorno nel 2017, il minimo storico da 24 anni in qua. Anche se oggi l’economia americana è in crescita, a maggio 2018 le importazioni USA di petrolio sono scese a 7,8 milioni di barili al giorno, mentre a metà 2012 erano sopra i 9 milioni di barili al giorno.
Ma non è tutto oro (nero) quello che luccica.
Innanzi tutto, è evidente che gli Stati Uniti stanno ancora importando 7,8 milioni di barili al giorno, poco meno dei 10 che producono. Perciò, per diventare energeticamente autonomi, gli americani dovrebbero arrivare a produrre dai loro pozzi nell’argilla texana quasi il doppio del greggio che ne estraggono oggi.
Ma esiste un secondo fattore oggi ancora poco considerato. Queste previsioni si basano sull’assunzione che i giacimenti shale produrranno volumi di petrolio sempre più grandi.
Purtroppo però, i giacimenti a bassa permeabilità mostrano una storia di produzione ben diversa dai giacimenti convenzionali. Tutte le risorse limitate seguono una curva di produzione che assomiglia a una campana e prende il nome di Curva di Hubbert. Ne parliamo in dettaglio qui proprio a proposito delle risorse fossili.
Ogni risorsa ha una sua curva caratteristica le cui dimensioni, sia in altezza (intensità di produzione) che in larghezza (tempo) sono funzione di numerosi parametri. Fra questi ci sono il costo di produzione e il prezzo di vendita, la disponibilità e l’accessibilità della risorsa e il suo quantitativo totale. Mentre le curve del petrolio e del gas convenzionali sono piuttosto ampie (e questo significa che la crescita iniziale, il picco e la decrescita finale si sviluppano su scale più che decennali) lo sfruttamento dei giacimenti di shale segue curve molto più ristrette, dovute principalmente alla pur sempre limitata efficacia delle tecniche di fratturazione idraulica se confrontate ai comodi metodi di estrazione dai giacimenti tradizionali.
Il risultato è che, mentre un giacimento convenzionale può essere sfruttato anche per decenni in modo economicamente vantaggioso, nei giacimenti a shale circa l’80% degli idrocarburi disponibili vengono già estratti nei primi due anni. Per compensare, si devono scavare altri pozzi nello stesso giacimento e usare di nuovo il fracking per sbloccare gli idrocarburi che ancora contiene e mantenere la produzione a regime. Il fenomeno, ben noto da anni, si chiama sindrome della regina di cuori e prende il nome dalla carta da gioco che, nel romanzo di Lewis Carroll, dice ad Alice: “devi correre più forte che puoi se vuoi rimanere nello stesso posto”. Puntualmente, infatti, i costi lievitano così rapidamente che conviene abbandonare il giacimento e andare a scavare da un’altra parte.
La curva che rappresenta il totale della produzione è il risultato della somma di tutte le curve di produzione dei singoli giacimenti o, se vogliamo, dei singoli pozzi. Perciò, mentre la curva del petrolio convenzionale è in ascesa da decenni – e in questo articolo cerchiamo di analizzare quando si raggiungerà il picco – la corrispondente curva per lo shale è molto più ristretta.
Il rapido esaurimento intrinseco a tutti i giacimenti a shale fa sì che presto vengano esauriti quelli più facili da sfruttare e ci si riduca a produrre petrolio e gas da quelli dove i costi di estrazione sono più alti e la quantità estraibile è minore.
Come previsto, la produzione dai principali giacimenti americani – in particolare Eagle Ford e Bakken – sta diminuendo sensibilmente dai rispettivi picchi raggiunti solo nel 2015. Anche il Permian (il più grosso, si estende sotto il Texas occidentale e Nuovo Messico) sembra prossimo a raggiungere il suo picco.
Un ultimo fattore da prendere in esame è la stima di quanto petrolio si possa estrarre da un dato giacimento di qualsiasi natura. Sui banchi universitari, l’Ingegner Giuseppe Bello era solito ripeterci che “sai quanto olio puoi estrarre da un giacimento solo quando lo avrai estratto tutto”.
Le compagine energetiche tendono ad essere un po’ di manica larga nelle stime dei giacimenti a loro disposizione, perché questo aiuta gli azionisti ad avere fiducia nelle compagnie stesse. Ma anche le tecniche per effettuare le previsioni hanno fatto notevoli passi avanti negli ultimi dieci anni. Il risultato è che anche le stime più rosee spesso devono venir corrette al ribasso, come nei casi clamorosi del giacimento Utica e in quello Monterrey. Per quest’ultimo le previsioni iniziali sono state tagliate di ben il 96% in poche ore!
Oggi, le rinnovabili non sono ancora in grado di soppiantare carbone, petrolio e gas e la quasi totalità degli Stati del mondo soddisfa la propria domanda di energia soprattutto con questi tre combustibili fossili, nonostante tutti i problemi di inquinamento. Anche in futuro, la domanda aumenterà, come prevede il recente studio Prospettiva per l’energia, proiezione al 2040 della Exxon.
Vi si legge che la produzione complessiva di petrolio convenzionale continuerà a diminuire, ma l’aumento di domanda dovrà essere soddisfatto dall’aumento dei giacimenti non convenzionali, primi fra tutti proprio quelli a shale.
Ma abbiamo appena visto che questi giacimenti si esauriscono molto più rapidamente degli altri, che estrarre petrolio o gas da giacimenti a shale sempre peggiori costa sempre di più nonostante il miglioramento delle tecnologie di fracking e, infine, che gli idrocarburi che vi si trovano intrappolati potrebbero essere molto più scarsi di quello che pensiamo.
Ecco alcuni punti su cui riflettere quando pensiamo al nostro futuro energetico. Gli americani se ne stanno già accorgendo. Meglio investire sulla ricerca e lo sviluppo di nuove fonti rinnovabili. E fare presto.
PS: In Italia non ci sono giacimenti a shale. Almeno per la sindrome della regina di cuori non abbiamo bisogno di vaccini.