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Green deal europeo: fini, mezzi ed errori (da evitare)

L'analisi di Gianfranco Polillo sul Green deal europeo

 

C’é chi brinda e chi si dispera di fronte alle nuove decisioni della Commissione europea di accelerare sul fronte del green deal. Plaudono gli ambientalisti che vedono nel 2050 la nascita di una società, che si muoverà solo grazie all’energia pulita. Si preoccupano invece gli industrialisti, che già tentano di calcolare quale dovrà essere lo sforzo, non solo finanziario, per realizzare quegli obiettivi. Quanto capitale dovrà servire. Quanti sforzi organizzativi dovranno essere messi al servizio di una riconversione che non sembra avere precedenti nella storia più recente.

In effetti quello che ci aspetta dovrà essere uno sforzo colossale. Di gran lunga superiore agli anni che caratterizzarono il “miracolo economico” nell’immediato dopo guerra. Che non fu solo fenomeno italiano. Sebbene con intensità diversa, la golden age interessò quasi tutti i Paesi europei, che colmarono, in pochi anni, il gap che li divideva dall’esperienza americana. Furono, infatti, i soldi del Piano Marshall, oltre che l’impegno profuso, a rendere possibile la riconversione delle vecchie industrie europee verso nuovi modelli organizzativi, all’insegna di quel “fordismo” che gli Stati Uniti avevano sperimentato cinquant’anni prima.

L’avvio della globalizzazione, agli inizi degli anni ‘80, rappresentò un nuovo cambiamento di fase. Fu la liberalizzazione del movimento dei capitali, negli anni precedenti sottoposti a rigidi controlli amministrativi, a determinare il salto di qualità. Da allora il processo di delocalizzazione industriale divenne sempre più intenso. Iniziarono a formarsi quelle catene del valore che, ancora oggi, innervano l’economia mondiale. Dando luogo a quella interdipendenza produttiva dalla quale é sempre più difficile prescindere. Al punto che la stessa politica – lo si é visto nei rapporti tra l’Occidente e la Cina – é stata costretta a moderare ogni possibile reazione.

Il saldo di paradigma determinato dall’ICT (information and communications technology) colse ancora una volta l’Europa di sorpresa. Il suo modello di sviluppo era soprattutto industrialista. Con alla testa la Germania e subito dopo l’Italia. Era old economy, come allora si disse, per distinguerla dalla new: patente americana e marchio di fabbrica da portare in giro per il mondo. Soprattutto nel sud est asiatico – Corea, Vietnam, Cina – dove concentrare la produzione – principalmente microchip – approfittando del basso costo della mano d’opera locale, ma non solo.

Nel mese di marzo del 2000, al vertice di Lisbona, i capi si Stato e di governo europei furono costretti a prendere atto del nuovo gap che si era prodotto tra il Vecchio continente ed il resto del mondo. Lo spirito mercantile che aveva guidato i principali Paesi europei, soprattutto Germania e Francia, aveva radicato le loro produzioni nei settori più tradizionali. Ch’erano sopravvissuti grazie alle innovazioni di processo e l’innesco, nel prodotto finito, di una quota crescente di elettronica, prodotta soprattutto in quei lontani Paesi. Decisero, quindi, che era necessario voltare pagina. Fissarono pertanto un nuovo obiettivo: diventare entro il 2010 la società basata sulla conoscenza più competitiva del mondo.

Non si può dire che quel traguardo sia stato raggiunto. Non lo é stato nel 2010, né nei dieci anni successivi. Sarebbe allora interessante interrogarsi sul perché. Se le politiche economiche seguite erano o meno coerenti con quel target. Se le politiche di bilancio, tutte sagomate nel segno dell’austerity, erano le migliori. Se la politica monetaria della Bce, prima della presidenza di Mario Draghi, quando maggiori erano le differenza con la Fed americana, era quella più idonea. Se l’eccesso di risparmio, derivante dai forti attivi della bilancia dei pagamenti dell’Eurozona, non poteva essere meglio utilizzato, invece di dar luogo ad aumento delle riserve valutarie o esportazione di capitale verso l’estero.

Ed invece niente di tutto questo. Come spesso capita nella politica europea, il consuntivo non ha diritto di cittadinanza. Nel Trattato che aveva portato al Fiscal Compact, era prevista una verifica dei risultati conseguiti, dopo cinque anni di sperimentazione. Comunque prima di inserire quelle regole nell’ordinamento giuridico europea. Anche allora la Commissione fece orecchie da mercanti. Si limitò a presentare la proposta di inserimento al Parlamento europeo. Che, giustamente, la bocciò. Cosa di cui si dovrà tener conto nel momento in cui si vorrà discutere della sua necessaria riforma. Con buona pace dei tanti cultori della vecchia ortodossia, che ancora si agitano nelle varie cancellerie europee.

Gli episodi che abbiamo ricordato vanno tenuti presenti nel momento in cui si assiste ad un nuovo rilancio da parte della Commissione europea. Il tono (aulico) é sempre lo stesso: “Puntare a essere il primo continente a impatto climatico zero”, si legge nel documento che ha aperto l’iniziativa. Impegno, anche se al momento solo teorico, che si sostanzia poi in tanti obiettivi vincolanti. Che, a loro volta, sono molto più ambiziosi rispetto al quadro originario, che fu tracciato nel dicembre 2019.

La sintesi delle misure ipotizzate – il “Fit for 55” -parla di far uscire di produzione nel 2035 le autovetture a benzina e diesel. Tutto dovrà essere elettrico, al fine di giungere all’obiettivo di emissioni di CO2 zero nel 2050. Tenendo conto del fatto che i trasporti vi contribuiscono per circa il 30 per cento. Dovranno quindi essere istallate milioni di centraline elettriche (una ogni 50 o 80 km) per i necessari rifornimenti e colonnine per la fornitura di idrogeno (150 km). Soprattutto prodotte batterie di nuova generazione in grado di garantire autonomie comprese tra i 500 e gli 800 chilometri, contro gli attuali 150. Preoccupa molto di più il trasporto su gomma. In questo caso si avrebbe un piccolo sconto. Mentre, per le autovetture, la riduzione delle sostanze inquinanti, nel 2030 dovrebbe essere pari al 55 per cento. Per i furgoni sarà sufficiente il 50.

Ancora più consistenti gli sforzi da effettuare per mettere in regola il trasporto aereo e quello marittimo, finora esentato da qualsiasi provvedimento. In prospettiva potranno atterrare negli aeroporti europei ed attraccare nei porti solo i mezzi dotati di meccanismi anti inquinanti in grado di abbattere le emissioni. Altrimenti dovranno pagare una super tassa. Allo stesso obbiettivo é rivolta la nuova tassa minima sui carburanti, che aumenterà progressivamente da 0,359 a 0,385 per la benzina e da 0,35 a 0,419 per il diesel. Con lo scopo di rovesciare, in qualche modo, i rapporti di convenienza nell’uso dei due diversi motori. Idem per il riscaldamento domestico. Si prevede infatti l’estensione dei certificati verdi, già usati dalle industrie. Chi inquina, sarà costretto a pagare di più.

A compensazione diminuirà invece l’imposta minima sull’energia elettrica: da 1 euro a 0,58 a mega watt. La relativa produzione, tuttavia, dovrà essere sempre più affidata alle fonti rinnovabili (40 per cento entro il 2030) raddoppiando in pratica rispetto ai livelli attuali. Con un aumento del solare di circa il 300% e dell’eolico del 200. Saranno poi imposti dazi sui materiali energevoli (cemento, acciaio, alluminiò, fertilizzanti, elettricità) se ottenuti in violazione delle norme anti inquinanti. Il tutto, ovviamente, avrà un costo destinato a scaricarsi sulle tasche dei contribuenti. Per venire incontro alle persone più fragili é previsto pertanto la costituzione di un Fondo pari 72,2 miliardi in 7 anni, grazie al quale, provvedere. Basterà?

Fin qui, seppure a grandi linee, i contenuti della politica da sviluppare. Interessante, allora, fornire qualche numero. Gli edifici da ristrutturare, che contribuiscono per circa il 20 per cento all’effetto serra, sono pari a circa 35 milioni. Si calcola che la loro riconversione ecologica possa dar lavoro a oltre 160 mila nuovi posti nell’edilizia. Il pubblico dovrà dare il buon esempio. Ogni anno dovrà provvedere a ristrutturare il 3 per cento degli edifici. Per giungere ad un utilizzo, nel 49% dei casi, di fonti di energia rinnovabile. Ancora più impegnativo l’intervento sul territorio. Occorrerà estendere i presidi naturali (foreste, torbiere, ecc.) che favoriscono il ricambio. La proposta: aumentare i pozzi naturali di assorbimento del carbonio da 230 a 310 milioni di tonnellate.

Che dire, quindi? Che il programma sia ambizioso, non esiste alcun dubbio. Lo é forse di più di quello legato alla dichiarazione di Lisbona, di cui si diceva all’inizio. Non certo un buon viatico. Non solo ambizioso, quindi, ma anche costoso, considerando le maggiori imposte, seppure decise a fin di bene, per combattere l’inquinamento. I rilievi fatti pervenire a Palazzo Chigi dalla Rappresentanza italiana di Bruxelles. Comunque sia, sarà comunque difficile tornare indietro. Ed allora non resta che attrezzarsi. Sarà necessario avere a disposizione una politica economica ancora più spinta sul terreno dello sviluppo. In grado di garantire il carburante necessario per realizzare un cambiamento che appare epocale.

Difficile dire se la Bce, nel decidere la sua forward guidance, in tema di nuovo obiettivo d’inflazione (il cosiddetto 2 per cento “simmetrico”) abbia tenuto conto del contesto che stava maturando. Certe sono invece le conseguenze delle scelte del green deal, sulla politica di bilancio dei singoli Stati. Che tutto potrà essere, meno che deflativa. Pena altrimenti rendere impossibile il conseguimento dei relativi obiettivi. Quindi un po’ di coerenza, specie da parte di quei concittadini di Ursula Von Der Leyen che, ad ogni piè sospinto, predicano il ritorno ai riti dell’austerità. Ritornare, come se niente fosse accaduto, ai vecchi riti del Patto di stabilità, avrebbe come conseguenza il fallimento del piano, ancor prima del suo possibile avvio.

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