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G20

Come è finito il G20 su Ambiente, clima ed energia?

L'analisi di Alberto Clò, direttore di Rivista Energia

 

Che dal G20 (19 paesi più l’Unione Europea) di Napoli su “Ambiente, Clima ed Energia” del 22- 23 luglio non vi fosse da attendersi granché era prevedibile. Ma non che non ne uscisse proprio nulla. Definirlo quindi ‘accordo storico’ è inutilmente autoconsolatorio.

Napoli ha fornito l’ennesima dimostrazione dell’incapacità dei grandi del mondo di addivenire a una pur minima comune azione (non dichiarazione). Specie sul tema centrale in questa Conferenza della relazione energia-clima che, diversamente da quanto si è sostenuto, non è stata affrontata per la prima volta a Napoli, perché lo fu in quella sui cambiamenti climatici di Toronto del 1988. Ben 33 anni fa. Conferenza che fissò per la prima volta l’obiettivo tutto politico di riduzione delle emissioni del 20%, cresciute invece da allora intorno al 34%.

Fra i primi limiti di questi vertici vi è la testarda pretesa di ricercare un’unanimità di consensi nel comunicato finale. Quasi che fosse condizione necessaria e sufficiente a dar seguito agli impegni assunti. Pretesa assurda vista la profonda diversità di interessi tra i paesi sostanzialmente tesi a non danneggiare le proprie economie.

Così è stato per l’America di Obama che letteralmente fuggì dalla COP 15 di Copenaghen del 2009 per non sottoscrivere il comunicato finale o per quella di Trump nella decisione di uscire dall’Accordo di Parigi.

Posizioni esattamente opposte a quelle dell’Europa fermamente convinta che aggressive politiche climatiche ancorché molto costose porteranno ad una radicale e rapida riconversione delle economie europee verso un nuovo modello di sviluppo e nuovi stili di vita, come affermato dal vicepresidente della Commissione Frans Timmermans.

Come potrebbero mai paesi produttori di petrolio e metano come Arabia Saudita, Russia, Indonesia firmare la loro condanna, impegnandosi a ridurre la loro produzione? O paesi come Cina e India rinunciare all’uso del carbone, addirittura entro il 2025, da cui origina rispettivamente il 63% e il 72% della loro complessiva generazione elettrica?

Richieste incomprensibili considerando che gli Stati Uniti dipendono ancora per un 1/5 dal carbone nella sua generazione elettrica; la Germania per ¼ (ed è disposta ad uscirne solo entro il 2038); il Giappone ancora per circa il 30%.

Certe richieste paiono essere fatte apposta per essere respinte. Il fatto è che al fondo dei fallimenti di questi vertici vi è l’irrisolta questione delle “comuni ma differenziate responsabilità” nel causare i cambiamenti climatici e il degrado ambientale, come si legge nel principio 7 della Dichiarazione di Rio sull’Ambiente e lo Sviluppo del 1992, così come le diverse capacità, condizioni economiche e sociali per farvi fronte tra Nord e Sud del mondo.

Un convincimento mai compiutamente fatto proprio dai paesi ricchi che hanno causato la più parte della concentrazione in atmosfera dei gas serra, pretendendo che siano gli altri paesi, quelli poveri, a farsene carico.

Imbarazzante che ci sia solo un generico riferimento agli impegni – sin qua ampiamente disattesi – assunti dai paesi ricchi sin dal 2009 di finanziare i paesi poveri per 100 miliardi di dollari all’anno nella loro lotta al global warming. Fronte d’intervento imprescindibile che consente benefici in termini di riduzione delle emissioni nettamente migliori che intervenendo direttamente nei paesi avanzati.

“Per la legge economica dei rendimenti marginali decrescenti”, ha ricordato Fabio Pistella su questo Blog, “investimenti realizzati nei paesi avanzati sono – a parità di spesa – molto meno redditizi rispetto a quelli possibili nei paesi emergenti, dove peraltro sono ben più veloci le dinamiche nel numero degli abitanti e nel PIL, con l’inevitabile conseguenza della crescita della domanda di energia e trasporti e quindi delle emissioni di CO2“.

I comunicati presentano una lunga litania di ‘incoraggiamo’, ‘auspichiamo’, ‘salutiamo’, ‘riconosciamo’ e via andare. Non ve ne è uno in cui stia scritto ‘abbiamo deciso’. Quindi: nessuna decisione se non quella di rinviare ad altro vertice ogni decisione. In questo caso alla COP 26 di novembre a Glasgow, presieduta da Gran Bretagna e Italia. Che da qui ad allora possano modificarsi le posizioni in campo è assolutamente impossibile.

Un’ulteriore importante conclusione emerge da Napoli. Ed è che l’Europa è totalmente sola nella legiferazione sul clima, specie dopo la pubblicazione il 14 luglio del Piano “Fit for 55”. All’Europa e alle sue politiche climatiche il Comunicato finale non fa alcun cenno. Quel che ne sminuisce la pretesa, come è stato scritto, di detenere la “leadership nella transizione energetica”. Derivandone una conclusione ancor più importante che da sola l’Europa non andrà da nessuna parte e non porterà a nessun rilevante risultato.

Anche ammesso e non concesso che tutte le proposte contenute nel citato Piano verranno accettate da Parlamento e Consiglio (del che vi è da dubitare) e che siano attuate nei tempi fissati, le emissioni globali dell’intero mondo al 2030 si ridurrebbero infatti in misura assolutamente simbolica: di 0,8 miliardi di tonnellate su un ammontare di quelle globali previsto in 36-38 miliardi di tonnellate: pari ad appena il 2%. Percentuale non statisticamente rilevante date le mille variabili da cui dipendono entrambe le grandezze del rapporto.

Napoli segna quindi il fallimento dell’Europa nel suo errato convincimento che la riduzione delle sue emissioni risolverebbe la lotta ai cambiamenti climatici. In un gioco a somma negativa: ove quel che perde in termini di crescita, di competitività, di benessere non sarà affatto controbilanciato da un miglioramento delle condizioni del Pianeta.

 

(Estratto di un articolo pubblicato su Rivista Energia)

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