L’Europa nell’ultimo quarto di secolo ha giocato la partita dell’energia affidandosi a un disegno liberista che non ha retto alla prova dei fatti. L’idea di smantellare i monopoli nazionali del gas – liberalizzando a valle l’offerta nei singoli paesi Ue, in un settore dominato a monte da un oligopolio ristretto di paesi produttori come la Russia – è figlia di una visione astratta del mercato dell’energia. È stato concesso a un monopolista come Gazprom, eterodiretto dal Cremlino, di servirsi delle norme europee di liberalizzazione per entrare nel settore della vendita e della distribuzione del gas in paesi come Germania e Italia senza che alle imprese europee fosse permesso, in osservanza al principio di reciprocità, di entrare sul mercato energetico della Federazione russa.
L’ERRORE EUROPEO, SECONDO CLÒ
“L’energia è stata considerata una merce come tutte le altre…Da qui la conclusione che non vi fosse più alcun valido motivo per sottrarre i sistemi energetici a regimi di piena concorrenza e di proprietà privata,” sostiene Clô, tra i maggiori esperti del settore.
Ma che mercato è quello che smette di funzionare perché uno dei soggetti che lo compongono, e che sta in Russia, un bel giorno decide di far mancare il prodotto? Di certo non è un mercato concorrenziale, o forse non è neppure un mercato.
LA REALTÀ DEL DISTACCO
Ora dobbiamo fare i conti con la realtà. Anzitutto con le incertezze alle quali ci espone il distacco dalle forniture di Gazprom e il contributo in forte crescita del gas liquefatto ai nostri consumi energetici. Il Gnl, secondo l’Aie, ha soddisfatto in media nel 2022 il 35% della domanda europea di “oro azzurro”, contro il 12% del precedente decennio. Per la prima volta i paesi dell’Unione hanno importato più gas proveniente via mare che gas trasportato via tubo (170 miliardi di metri cubi contro 151 miliardi). Ma oltre il 50% dei loro acquisti di Gnl è avvenuto sul mercato spot, caratterizzato da comportamenti molto opportunistici e speculativi, il che li rende più vulnerabili. Oltre tutto circa 60 miliardi di gas liquefatto sono arrivati in Europa dalla Russia, che cerca di riconquistare così in parte la posizione perduta nelle vendite via tubo. Secondo Energy Flux, il continente europeo per rifornirsi di gas ha speso negli ultimi due anni e mezzo 1,12 trilioni di dollari, un importo simile al Pil dell’Arabia Saudita; ha cioè sborsato una cifra pari a quella dei precedenti dieci anni anche se i suoi consumi sono scesi ai minimi degli ultimi ventotto anni.
I COSTI DELL’EMERGENZA GAS
E qui siamo al problema dei costi dell’emergenza. Le prime notizie che circolarono nella primavera 2022 circa il prezzo della rinuncia alle fonti fossili importate dalla Russia – diffuse dall’agenzia di stampa Reuters – facevano riferimento a un piano di emergenza della Ue da 210 miliardi di euro della durata di cinque anni, imperniato sulla ricerca di nuovi fornitori, sulla riduzione dei consumi energetici e sull’espansione delle rinnovabili. Fu subito chiaro che il prezzo da pagare sarebbe stato elevato.
Soltanto per realizzare i 46 impianti di rigassificazione e i 6 gasdotti già programmati a livello continentale occorreranno un centinaio di miliardi. Nel frattempo per tamponare la crisi energetica sono stati spesi dai 27 paesi dell’Unione, per aiuti a famiglie e imprese, 657 miliardi (compresi i 100 per riempire gli stoccaggi). E altri miliardi occorreranno per sussidiare l’industria energivora, i cui costi di produzione sono divenuti insostenibili per effetto dell’aumento dei prezzi: parliamo di acciaierie, impianti petrolchimici, cementifici, vetrerie, cartiere da anni in calo di competitività perché già prima della guerra pagavano l’energia a valori superiori a quelli della concorrenza cinese, indiana e americana.
Tutti questi interventi dovrebbero rimettere in sicurezza le forniture di idrocarburi all’Europa a partire dal 2025 e far scendere ulteriormente i prezzi.