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Egitto

Perché l’Egitto rischia grosso con il nucleare di Rosatom

Il contratto per il quarto reattore nucleare di el-Dabaa rischia di legare per decenni l'Egitto alla Russia: la partnership è sbilanciata a favore del Cremlino. Tutti i dettagli.

Gongolavano martedì scorso il presidente egiziano al-Sisi e quello russo Putin quando hanno dato il via ai lavori per la costruzione del quarto reattore di quella centrale di el-Dabaa che fa un grosso favore a entrambi. Ma dall’America parte un monito che invita a guardare in profondità a quel contratto che legherà per decenni l’Egitto alla russa Rosatom e dunque al Cremlino.

Via al quarto reattore di Dabaa

Come ha puntualmente riportato il quotidiano di proprietà statale Al-Ahram in una notizia rilanciata anche da Al-Monitor, un videocollegamento celebrativo stabilito lo scorso 23 gennaio tra il presidente egiziano al-Sisi e il suo collega russo Putin ha segnato l’avvio dei lavori per la costruzione di una nuova unità di quella centrale nucleare di Dabaa con cui Mosca cementa non solo simbolicamente le sue ambizioni globali nel campo dell’atomo.

La centrale e l’accordo Rosatom-Egitto

Quello di cui è avviata la costruzione martedì è lo uno dei quattro reattori di una centrale che sorge vicino alla costa mediterranea a 170 km a ovest di Alessandria e i cui lavori, dal costo dichiarato di 30 miliardi di dollari e una futura capacità produttiva di 4,8 gigawatt, sono affidati alla russa Rosatom.

Dei due leader quello apparso più soddisfatto è stato Putin, tutt’altro che parco di congratulazioni per un Paese considerato “uno stretto nostro amico” e un “partner strategico” con cui la cooperazione “continua e sta evolvendo”.

Vantaggi per l’Egitto

Ma, come osserva Reuters, ragioni per rallegrarsi ne aveva anche quel Sisi che guida una nazione di 105 milioni di cittadini affamati di energia: la nuova centrale non solo permetterà di soddisfare quella pressante domanda con l’ulteriore vantaggio di diversificare le fonti, ma permetterà all’Egitto di proporsi come hub energetico regionale in grado di esportare elettricità ai vicini.

Come ricorda Al-Monitor, il nuovo impianto genererà a regime il 10% della produzione di elettricità totale del Paese assicurando il sostentamento energetico di ben 20 milioni di persone.

L’energia cruccio di Sisi

Per Sisi l’energia è un cruccio. Malgrado l’Egitto abbia ormai un surplus di capacità nella generazione di elettricità, non ha ancora risolto il problema dei blackout che lo perseguitano dalla scorsa estate quando ripetute ondate di calore hanno determinato un picco di domanda di energia per far funzionare i condizionatori.

E poiché da qualche tempo la produzione di gas naturale si è fortemente contratta, il Cairo è stato costretto a ricorrere al petrolio per far funzionare molte centrali elettriche, una mossa che ha consentito anche di mantenere costante l’export di quel GNL che rappresenta una preziosa fonte di valuta estera in un Paese che ne ha pochissima.

Ore liete per Putin

Resta che la giornata di martedì è stata molto dolce per quella Russia che già nel 2015 aveva firmato col Cairo l’accordo per costruire una centrale nucleare i cui costi sarebbero stati coperti in larga parte da Mosca in base a termini, però, su cui saremo costretti a ritornare dopo.

Dabaa è un’altra bandierina nella mappa dell’espansione nucleare di un Paese che sta implementando progetti analoghi nello stato indiano del Tamil Nadu (centrale di Kudankulam), in Ungheria (centrale di Paks) e in Turchia (Akkyu).

Il monito degli scienziati

Dietro alla costruzione della centrale di Dabaa ci sono aspetti non propriamente limpidi che sono stati sottolineati a dicembre da una scienziata del prestigioso Bulletin of the Atomic Scientists, l’organizzazione nota per il Doomsday clock, l’orologio che segna quanti minuti mancano alla mezzanotte dell’olocausto nucleare.

Marina Lorenzini, che svolge la sua attività di ricerca presso il Belfer Center for Science and International Affairs alla John F. Kennedy School of Government dell’Università di Harvard, apre il suo lungo intervento ricordando l’impegno preso da 22 Paesi alla COP28 di Dubai di triplicare la produzione globale di energia nucleare entro il 2050.

Il problema è che molti Paesi interessati si rivolgeranno proprio ai russi di Rosatom per costruire i reattori desiderati. Stiamo parlando di un gruppo che controlla circa il 70% del mercato globale relativo alla costruzione di nuovi impianti nucleari, con un export dichiarato che nel 2022 ha superato i dieci miliardi di dollari e ordinativi internazionali già acquisiti che porteranno nelle sue casse nei prossimi dieci anni almeno 200 miliardi.

Occhio alla partnership

Il problema sta nel particolare tipo di partnership che Rosatom tende a sviluppare con gli aspiranti Stati nucleari, come mostra proprio il caso di Dabaa che, a detta della scienziata, rivela tutti i “potenziali rischi dell’export nucleare russo”.

Lorenzini ricorda anzitutto che l’intesa tra Mosca e il Cairo prevede che la prima copra l’85% dei costi (25 miliardi) di realizzazione dell’impianto. Ma non è affatto chiaro dove troverà i restanti 5 un Paese come l’Egitto secondo solo all’Ucraina nella vulnerabilità a una potenziale crisi del debito sovrano e alle prese con ulteriori problemi come la mancanza di dollari, i cicli successivi di svalutazione e il venir meno degli aiuti dei donatori storici del Golfo.

Ma non è questa l’unica criticità di Dabaa, dotata di reattori Rosatom disegnati per durare almeno 60 anni con la capacità di arrivare a 80. Ciò significa che lo Stato egiziano dovrà mantenere una relazione contrattuale con la Russia almeno fino al 2110, lasciando così a un Paese straniero “il controllo su un asset infrastrutturale fondamentale per la sicurezza energetica egiziana, con potenziali ripercussioni geopolitiche che potranno essere avvertite oltre i confini dell’Egitto”.

A ciò si aggiunge un’aggravante: per Dabaa la Rosatom ha imposto un tipo di contratto chiamato build-own-operate (BOO), che prevede che la Russia paghi quasi tutti i costi di costruzione e venga ripagata con i futuri proventi dell’elettricità venduta, e non quel modello di contratto tipico delle partnership infrastrutturali tra pubblico e privato chiamati BOT (build-operate-transfer) in cui l’entità privata restituisce il controllo dell’infrastruttura dopo aver avuto indietro l’intero ammontare dell’investimento fatto.

Non sarebbe in verità l’unico caso in cui un contractor straniero mantiene il controllo operativo di una centrale nucleare: c’è infatti un precedente ed è quello dell’impianto di Baraka negli Emirati Arabi Uniti in cui la compagnia sudcoreana che ha vinto il contratto continuerà a operare per tutta la durata dei reattori, ossia sessant’anni.

Naturalmente qui c’è una differenza ed è quella solidità finanziaria degli Emirati che l’Egitto non ha. Da ciò discende l’inquietante domanda dell’autrice: cosa succederà se l’Egitto non riuscirà a ripagare la Russia in modo tempestivo e adeguato? Accadrà forse come per quella centrale ucraina di Zaporizhzha che Mosca si è ripresa con la forza? Ma senza pensare a scenari così estremi, quanto è compatibile una simile dipendenza con le ambizioni nazionali e regionali di un Paese che, non va dimenticato, anche in queste ore è guardato dagli Usa come ad un partner chiave?

Domande inevase che non esauriscono il ventaglio degli interrogativi sollevati dalla scienziata nel suo preoccupato articolo che non sarà sfuggito a Washington.

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