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Libia

Ecco le strategie post Covid di Eni, Chevron, Shell, Bp e Total

La pandemia, i bassi prezzi del petrolio e prima ancora la guerra sul greggio tra Arabia Saudita e Russia hanno condotto le aziende petrolifere a uno dei trimestri più impegnativi di sempre. Tutti i dettagli sulle strategie di Eni, ExxonMobil, Chevron, Shell, Bp e Total

 

La pandemia da Covid, i bassi prezzi del petrolio e prima ancora la guerra sul greggio tra Arabia Saudita e Russia hanno condotto le aziende petrolifere a uno dei trimestri più impegnativi di sempre per le più grandi compagnie del mondo: ExxonMobil, Chevron, Shell, BP, Total ma anche Eni, sono state costrette a svalutare il valore dei loro asset petroliferi e del gas per oltre 50 miliardi di dollari complessivi.

Tutto ciò mentre i prezzi delle materie prime crollavano e per alcuni di loro si procedeva a uno strategico azzeramento delle aspettative sul futuro dei prezzi del petrolio.

INVESTIMENTI E PRODUZIONE IN CONTRAZIONE

Partiamo dalle prime cinque compagnie petrolifere internazionali: ExxonMobil, Chevron, Shell, BP e Total sono state costrette a ridurre i piani di spesa in conto capitale (capex) e la loro produzione di petrolio e gas a causa del crollo della domanda nel secondo trimestre dovuto alla pandemia di Covid.

Tutte le major – con l’eccezione di Exxon – hanno ricalibrato, infatti, il valore delle loro attività nel settore petrolifero e del gas nel secondo trimestre per via dei bassi prezzi del petrolio e delle aspettative di una domanda depressa che dovrebbe continuare anche nei prossimi trimestri.

La Exxon dal canto suo non ha registrato alcuna grossa svalutazione nell’ultimo trimestre e ha mantenuto il suo dividendo. Ma all’altro estremo BP non solo ha dimezzato il suo dividendo e ha contabilizzato miliardi di dollari di svalutazioni, ma ha anche annunciato un cambiamento strategico per tagliare la sua produzione di petrolio del 40% e decuplicare gli investimenti in energia a basse emissioni di carbonio entro un decennio.

COSA FA EXXON

Più nel dettaglio, conti alla mano, Exxon ha riportato la seconda perdita trimestrale consecutiva, che è stata anche la peggiore perdita della sua storia moderna. La compagnia ha comunque ribadito l’impegno al pagamento dei dividendi, valutando le sue attività paese per paese dopo aver individuato “un significativo potenziale di ulteriori riduzioni”.

Una settimana dopo la pubblicazione dei risultati, Exxon ha dichiarato in un documento della SEC che i bassi prezzi del petrolio potrebbero portare a riduzioni del 20% delle sue riserve comprovate alla fine del 2020, rispetto ai 22,4 miliardi di barili equivalenti al petrolio registrati alla fine del 2019.

IL PERCORSO DI CHEVRON

A differenza della Exxon, Chevron, è stata costretta a registrare svalutazioni per un totale di 5 miliardi di dollari dopo aver chiuso la trimestrale con il peggior risultato degli ultimi trent’anni Gli oneri della Chevron includono 1,8 miliardi di dollari, per lo più associati a revisioni al ribasso delle prospettive dei prezzi delle materie prime, la svalutazione completa dell’investimento di 2,6 miliardi di dollari in Venezuela, e un onere di 780 milioni di dollari dovuto alle indennità di licenziamento, in quanto prevede di tagliare il 13%, ovvero circa 6.000 posti di lavoro, della sua forza lavoro.

LE STRATEGIE DI SHELL E TOTAL

Dall’altra parte dell’Atlantico, le compagnie europee Shell e Total sono riuscite ad evitare perdite post Covid grazie alle loro attività di trading petrolifero che hanno attutito il colpo dei bassi prezzi del petrolio.

Entrambe, tuttavia, hanno anche contabilizzato le perdite legate alla revisione delle prospettive del prezzo del petrolio. Shell ha contabilizzato una svalutazione di 16,8 miliardi di dollari al netto delle imposte mentre rivedeva le sue ipotesi di prezzo e i fondamentali di mercato. Total ha contabilizzato svalutazioni per 8,1 miliardi di dollari – di cui 7 miliardi nelle sabbie bituminose del Canada – per aver ridotto le sue aspettative di prezzo a breve termine.

“Oltre il 2030, visti gli sviluppi tecnologici, in particolare nel settore dei trasporti, Total prevede che la domanda di petrolio avrà raggiunto il suo picco e i prezzi del Brent dovrebbero tendere verso il prezzo a lungo termine di 50 dollari al barile, in linea con lo scenario IEA SDS”, ha detto Total.

I DIVIDENDI POST COVID

Total, tuttavia, ha mantenuto intatto il suo dividendo, diventando l’unica major europea a non aver finora fatto ricorso a tagli quest’anno. Equinor e Shell hanno tagliato i dividendi già a fine aprile e inizio maggio, mentre Eni e BP hanno annunciato tagli di dividendi con i risultati del secondo trimestre nelle ultime due settimane.

LA SCELTA DI BP

Bp ha dimezzato il suo dividendo, riducendo il pagamento agli azionisti per la prima volta dal disastro della Deepwater Horizon nel 2010. Il taglio non è stato una sorpresa. Lo è stato invece l’impegno di Bp a ridurre la sua produzione di petrolio e gas del 40% entro il 2030 come parte della sua strategia di trasformare se stessa da una International Oil Company (IOC) a una Integrated Energy Company (IEC).

COSA HA FATTO ENI NEL DOPO COVID

Nel secondo trimestre Eni ha registrato una perdita netta di 4,41 miliardi di euro, portando i risultati semestrali a una perdita di 7,34 miliardi di euro. Il dato include una svalutazione degli asset di 3,5 miliardi di euro, in gran parte dovuta al calo delle ipotesi di prezzo del petrolio in futuro. La compagnia petrolifera italiana ha anche ridotto gli investimenti e rivisto la politica dei dividendi.

A chiarire meglio l’andamento dell’azienda ci ha pensato l’ad Claudio Descalzi in un intervento sul Sole 24 Ore: “Nel semestre peggiore per l’industria dell’oil&gas abbiamo costruito la nuova Eni, anticipando anche il lancio della nuova organizzazione (con l’avvio di due direzioni generali, Natural Resources e Energy Evolution, ndr), e abbiamo fatto una profonda revisione di capex e opex senza tagliare nemmeno un posto di lavoro. A questo abbiamo affiancato anche una rivisitazione ‘innovativa’ della politica dei dividendi perché vogliamo essere chiari e trasparenti in una situazione molto incerta”.

In questo caso si è deciso per una policy che combina una base fissa di 36 cent per azione, commisurata a una media annua del Brent di almeno 45 dollari al barile (e che sarà pagata anche nel 2020 nonostante le stime indichino oggi un valore di 40 dollari/barile), e una “quota” variabile parametrata al rialzo delle quotazioni del petrolio fino a 60 dollari al barile – oltre il quale saràriattivato anche il piano di buyback (in un range tra 400 e 800 milioni, anche questo in funzione del prezzo dell’olio) – e calcolata come percentuale crescente, tra il 30 e il 45% del free cash flow incrementale generato dallo scenario (e stimato in 900 milioni in più per ogni aumento di 5 $/barile).

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