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Arcelor Mittal

Ecco i veri nodi incandescenti di Ilva e Arcelor Mittal. L’analisi di Polillo

Errori di Arcelor Mittal del piano industriale Ilva? Possibile. Rinazionalizzare? Significherebbe solo socializzare le perdite. Non esistono alternative ad una possibile trattativa tra governo e colosso siderurgico. L'analisi di Gianfranco Polillo

A volte, come insegnavano i vecchi genitori, prima di parlare si dovrebbe contare fino a dieci. E solo dopo, ma solo se strettamente necessario, pronunciar parola. Peccato che Luigi Di Maio non abbia voluto seguire questa vecchia massima popolare. Uscito dall’incontro con i vertici del Movimento, ancora carico di adrenalina, non si è trattenuto per la gioia dei cronisti, in agguato dietro l’angolo. “Prima di tutto – queste le sue affermazioni – dobbiamo costringere Arcelor Mittal a mantenere gli impegni presi, perché se già parliamo di un post Mittal, gli stiamo fornendo la scusa perfetta, poi tutto si può fare”. Lodevole intenzione. Se fosse anche percorribile. Che significa, infatti, “costringere”? Gli si punta una pistola alla testa? Gli si invia una pattuglia dei carabinieri? La si costringe all’imponibile di mano d’opera, come avveniva nell’immediato dopo guerra? C’è sempre la possibilità di fargli causa, per il mancato rispetto degli accordi. Ma bisogna essere consapevoli dei tempi della giustizia civile italiana. Otto anni di patimenti: se tutto va bene. Campa cavallo.

La verità è che non esistono alternative ad una possibile trattativa. Per la quale bisogna essere in due. Ma allora i toni ultimativi non hanno senso alcuno. Il punto è riconoscere – scudo o non scudo penale – che la situazione è oggettivamente difficile. Che quindi si può chiedere il possibile: il che è già tanto. Mentre i miracoli non sono cosa di questo mondo. I dati del problema sono poco noti. Vale, quindi, la pena richiamarli.

Nei primi mesi dell’anno le perdite accumulate dalla società sono state pari a 572 milioni di dollari. L’Ebitda (utili prima degli interessi, delle imposte, del deprezzamento e degli ammortamenti) rispetto al corrispondente periodo dell’anno precedente è crollato del 32 per cento. La magistratura di Taranto ha imposto, in pratica, lo spegnimento dell’altoforno 2, dando una scadenza (13 dicembre) impossibile per effettuare i necessari interventi a favore dell’ambiente.

Errori del piano industriale? Possibile. Ma se il suo eventuale ridimensionamento dovesse dimostrare che produrre acciaio, a prezzi competitivi, non è possibile, cosa bisognerebbe fare? Rinazionalizzare: come pure taluni suggeriscono? Significherebbe solo socializzare le perdite, ripercorrendo la strada fallimentare delle vecchie Partecipazioni statali, giunte ormai all’apogeo della loro pur gloriosa carriera. Meglio invece capire ciò che sta avvenendo in un settore strategico per l’intera economia nazionale. A preoccupare, infatti, non sono solo gli esuberi ventilati, in una città come Taranto, dove il tasso di disoccupazione è una condanna. Ma il riflesso che quell’eventuale chiusura o ridimensionamento può avere sulle industrie meccaniche nazionali. Che sono lo stanco motore di un’economia che gira a bassi regimi.

Sul comparto agiscono due crisi differenti. Da un lato la stretta congiunturale che nasce dal rallentamento di tutta l’economia europea. Ed in particolare della Germania: prima potenza industriale verso la quale è indirizzata larga parte della produzione italiana. I cosiddetti “terzisti”. Produttori cioè di quelle parti meccaniche che costituiscono parte integrate delle catene del valore. In questo più ampio mercato la produzione siderurgica, nei primi mesi dell’anno, è scesa del 3 per cento, fermandosi sulla soglia delle 122,5 milioni di tonnellate di prodotto. Un po’ perché la domanda non tira. Ma soprattutto a causa di una concorrenza cinese che marcia come un treno. Nello stesso periodo, la produzione dell’ex Celeste impero è cresciuta dell’8,4 per cento per un totale (notare le differenze) di 748 milioni di tonnellate.

Si può fare come Donald Trump nel ricorrere ad eventuali dazi d’importazione? Chi sostiene questa prospettiva non deve dimenticare che la politica commerciale è appannaggio europeo. Dubitiamo che gli altri Paesi siano disposti ad un passo del genere. Per la semplice ragione che il minor prezzo del prodotto favorisce le rispettive imprese. Sarebbe, comunque, auspicabile una maggiore solidarietà. Ma visto come vanno le cose sul terreno, ben più gestibile, dei flussi d’immigrazione non scommetteremmo un soldo bucato. Ne consegue che deve essere il Governo e lo Stato italiano a gestire questa patata bollente, cercando di limitare, il più possibile, il danno. Invece di gettare altri soldi dalla finestra. Come già sta avvenendo nel caso di Alitalia.

L’altro corno del dilemma è, invece, la crisi strutturale che sta inchiodando il Paese nella morsa di una stagnazione decennale. Come mostrato tutti i dati a disposizione, il Terzo millennio è stato finora caratterizzato da una crescita inconsistente, che ha relegato l’Italia all’ultimo posto di tutte le classifiche internazionali. Avendo come dirimpettai solo l’Argentina e la Turchia di Erdoğan (ma solo in quest’ultimo periodo). La sua domanda interna, dal 2000 è cresciuta ad un ritmo medio dello 0,7 per cento. Che è meno della metà di quella dell’Eurozona (1,7 per cento media annua). Forse gli Indiani pensavano che, prima o poi, gli Italiani sarebbero rinsaviti. Che avrebbero fatto tutto il possibile per uscire da questa lunga agonia, che li colloca sempre all’ultimo posto, secondo i calcoli della Commissione europea. Puntando su un mercato potenziale che è pari all’11 per cento dell’Europa a 27. Ma così non è stato. Anzi, le ultime previsioni dimostrano che, nell’immediato futuro, le cose andranno anche peggio.

Le esportazioni sono, indubbiamente, la grande risorsa del Paese. In media, dal 2000 sono state pari a circa il 25 per cento del Pil prodotto. Quota che, nel 2018, ha raggiunto il 31 per cento. Ma è un motore ancora troppo piccolo per trainare l’intero convoglio nazionale. La siderurgia – basti pensare al ristagno delle grandi infrastrutture – è la prima vittima di questo stato di cose. Pensare di risolvere, almeno in prospettiva, il problema di Taranto significa voltare pagina. Abbandonare le fumose teorie della “decrescita felice” e rimboccarsi le maniche, nel tentativo di recuperare il tempo finora perduto.

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