Il premier Mario Draghi, insieme ai ministri Luigi Di Maio e Roberto Cingolani, sta cercando di sostituire il gas russo con maggiori acquisti in diversi paesi dell’Africa e dell’Asia, ma non in Libia, che sulla carta sembrerebbe la soluzione più facile: è un paese vicino, al quale siamo già collegati con un gasdotto dal quale riceviamo il 4,2% dell’import nazionale di gas, e dispone di ingenti giacimenti di gas e petrolio, dove l’Eni ha svolto per decenni un ruolo da protagonista e mantiene tuttora una valida presenza.
A complicare le cose, però, c’è un fatto: la Libia è piombata di nuovo nel caos politico, divisa com’è tra due premier, uno a Tripoli e l’altro appena eletto a Tobruk, che si contendono il potere, in primo luogo quello di controllare la Banca centrale e i ricchi proventi di gas e petrolio. Di fatto, lo scenario libico è tornato al punto di partenza, più o meno a un anno fa: dietro i due premier antagonisti, Abdelhamid Dbeibah a Tripoli e Fathi Bashagha a Tobruk, a condurre le danze ci sono la Turchia e la Russia, mentre l’Unione europea è assente, e l’Italia, anche con Draghi al governo, non conta nulla. In ogni caso, a rendere impensabili le trattative sul gas c’è un clima da guerra civile, pronta a riesplodere.
Eppure, fino a sei mesi fa, la Libia sembrava incamminata verso il ripristino di un processo democratico. La guerra civile tra la Tripolitania, governata da un esecutivo riconosciuto dall’Onu, e la Cirenaica, guidata dal generale ribelle Khalifa Haftar con il sostegno della Russia di Vladimir Putin, si era conclusa con la vittoria di Tripoli grazie all’aiuto militare determinante della Turchia di Recep Tayyip Erdogan. In un clima che sembrava di pace, per il 24 dicembre 2021 erano state fissate le elezioni per eleggere il nuovo presidente, e 3,5 milioni di libici, su 7 milioni di abitanti, si erano registrati per il voto. In base agli accordi, il premier ad interim che le doveva organizzare, Dbeibah, un ricco imprenditore, non poteva candidarsi.
Dbeibah, invece, si è candidato, scontrandosi con il Parlamento di Tobruk, che ha sede in Cirenaica, dove ha diversi avversari. Risultato: le elezioni del 24 dicembre sono state annullate, e il 10 febbraio scorso il parlamento di Tobruk ha votato per acclamazione Bashagha nuovo premier ad interim, al posto di Dbeibah. Quest’ultimo, però, è rimasto al suo posto a Tripoli e da più di due mesi la Libia ha due premier, che si combattono a parole e non solo: un caos politico totale, oscurato sui media dalla guerra in Ucraina.
Descrivere questo caos non è facile. Sul piano istituzionale, l’Onu ha confermato anche qui, come in Ucraina, di essere privo di autorevolezza, un ente inutile. Appena ha appreso della nomina di Bashagha, il portavoce del Palazzo di vetro, Stephane Dujarric ha reso noto che l’Onu continuerà a sostenere Dbeibah come premier. Quest’ultimo considera illegittima la votazione del Parlamento di Tobruk e dice di avere fiducia solo nell’Alto consiglio di Stato, che è stato istituito dall’Onu nel 2015 e nel 2016 si è auto-dichiarato nuova sede legislativa libica, togliendo tale potere a Tobruk.
Non solo: in un discorso alla nazione, Dbeibah ha ribadito che «continuerà a lavorare fino a quando il potere sarà trasferito a un’autorità eletta tramite elezioni», possibili a suo avviso nel giugno prossimo. Cosa ritenuta impossibile da tutti: le milizie armate dei due premier hanno già iniziato a scannarsi, e pochi giorni fa Dbeibah è scampato a un attentato, mentre attraversava Tripoli in auto.
Di elezioni parla anche Bashaga, che per i prossimi giorni ha annunciato la presentazione del suo nuovo governo davanti al Parlamento di Tobruk, per lui l’unico parlamento valido in Libia. Subito dopo la fiducia, ha precisato, avrà inizio una road map che prevede le elezioni presidenziali dopo 14 mesi, più la nomina di 24 rappresentanti delle tre regioni libiche (Tripolitania, Cirenaica, Fezzan) per redigere una nuova costituzione. Già, la costituzione. Che ce ne sia un gran bisogno, lo ripetono da tempo tutti gli osservatori: il Parlamento di Tobruk è stato eletto più di sette anni fa e reclama diritti legislativi scaduti da diversi anni; anche l’Alto Consiglio di Stato è scaduto da tempo. Ciò significa che le due istituzioni su cui i due premier libici basano il proprio mandato sono prive di legittimità costituzionale, dei paraventi giuridici dietro ai quali si cela in realtà una guerra di potere per il controllo della vera ricchezza della Libia, il gas e il petrolio.
Ma è qui, nella guerra economica, che emerge un fatto nuovo. La nomina di Bashaga è stata preparata con cura, per renderla accetta da quasi tutte le parti: proviene da Misurata (Tripolitania), la stessa città di Dbeibah; è stato ministro dell’Interno di Fayez al- Sarraj; è vicino alla Fratellanza mussulmana; ha avuto l’appoggio del redivivo generale Haftar e la sua nomina è stata riconosciuta subito dall’Egitto. Insomma, una scelta che sembra preludere a nuove alleanze: Bashagha, infatti, è considerato vicino anche alla Turchia e ai suoi servizi segreti. Il che, unito al fatto che Haftar, suo sponsor, abbia intavolato trattative con Erdogan per il controllo delle aree del Mediterraneo ritenute interessanti per il petrolio e il gas, viene visto come un possibile riposizionamento di Turchia e Russia in Libia, dove fino a ieri erano su fronti opposti, con Putin dalla parte di Haftar ed Erdogan contro. In questo scenario, lo scontro armato tra le milizie dei due premier potrebbe sfociare in una nuova guerra civile, rinviando le elezioni sine die. E gli unici a guadagnarci, alla fine, saranno Erdogan e Putin, che potranno spartirsi il bottino delle fonti di energia. E lasciare l’Onu, l’Unione europea e, purtroppo, anche l’Italia nel ruolo di semplici osservatori internazionali, senza voce in capitolo.
Articolo pubblicato su italiaoggi.it