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Che cosa manca nel decreto sulle materie prime critiche

Il punto di Sergio Giraldo tratto dalla newsletter Out.

Il Consiglio dei Ministri ha dato il via libera al decreto miniere, che sblocca un settore che, se ben governato e a certe condizioni (il tema è assai delicato e le miniere hanno un impatto ambientale forte), può dare al Paese qualche soddisfazione. Il decreto si preoccupa soprattutto di definire un quadro di attribuzioni e di ruoli, tenendo conto dell’invasivo Regolamento europeo sui materiali critici ((UE) 2024/1252).

Si attribuiscono al Comitato interministeriale per la transizione ecologica nuovi poteri, si crea un Comitato Tecnico, all’ISPRA vengono demandati i compiti legati alle risorse minerarie, si crea un registro delle imprese strategiche (quelle che costituiscono la domanda di minerali critici). Si avvia il fondo strategico per il Made in Italy, in co-gestione tra Cassa Depositi e Prestiti e INVIMIT, con un miliardo di euro di dotazione iniziale.

Tutto bene. Qualcosa manca, però. Nel decreto c’è molto riguardo per l’estrazione, ma nessuno per la trasformazione dei minerali estratti. Estrarre minerali per poi farli lavorare all’estero non è una buona strategia, posto che la raffinazione dei minerali (un po’ come la raffinazione del petrolio per trasformarlo in benzina) rappresenta spesso il vero collo di bottiglia nella disponibilità dei materiali critici. Dunque, da qualche parte bisognerà pur scrivere che ciò che si estrae in Italia va lavorato in Italia da imprese italiane, o mettere dei limiti all’export dei minerali dal Paese. Se si vuole creare occupazione e catene di fornitura sotto controllo strategico è il minimo. Persino l’Indonesia ha messo dei limiti all’export del minerale di nichel per creare una catena di trasformazione nazionale, che oltre ad essere strategica è a maggiore valore aggiunto per il paese. C’è tempo per correggere il decreto in Parlamento.

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