COP 28. Unica assente la sobrietà. 65.000 accreditati e altri 25.000 a seguire. Mandrie di jet che ammorbano l’atmosfera nel mentre di sotto si discute di come ripulirla. Non so di nessuna impresa di rilievo, consulente globale o lobbista in divisa verde che abbia mancato di spedirvi rappresentanza, meglio se folta. Il gazebo aveva le forme esterne della politica; ma sotto era suq. COP che proliferando si muta progressivamente in una esposizione universale dell’energia, grande teatro per darsi immagine ed esporre mercanzie. Un ripensamento del formato sarebbe forse doveroso; e renderebbe anche più credibili le COP come luoghi della politica.
TRANSITION AWAY
Politica che stavolta, seppure in extremis, comunque si diede presente. Quasi 200 tra potenze e miniStati hanno dichiarato unanimi che la prevenzione del riscaldamento globale è una priorità; e che la sostituzione dei combustibili fossili è a sua volta una priorità della priorità politica. La formula magica condivisa da produttori mediorientali e decarbonizzatori occidentali è “transitioning away” (Musica di Paul Simon –Slip slidin’ away; e parole di Sultan Al-Jaber). Dobbiamo transition away (lascio a voi la traduzione) dai combustibili fossili, in maniera giusta, ordinata ed equa (che tradotto in manzoniano suona adelante, con juicio y si puedes). Laddove l’obiettivo del transitioning è quello di arrivare a emissioni net zero entro il 2050.
Qualcuno ha titolato che COP 28 ha sancito il bando dei combustibili fossili. In realtà hanno scritto “net” zero e non “zero”, e perciò anche i modelli più aggressivi qualche barile di petrolio nel 2050 ancora ce lo lasciano.
Di per se stesso, COP è irrilevante. Il futuro è ancora domanda e offerta, con qualche possibilità per gli Stati nazionali di accelerare la sostituzione del fossile via carbon tax o incentivi vari (ma attenti alle ricadute sociali di una tassazione al consumo più che tendenzialmente regressiva).
LA GREEN LITIGATION IN EUROPA
La giurisprudenza, utilizzando ampliamente la letteratura COP, ha incorporato in Europa il diritto al clima (così lo definisco per semplificare) come un diritto assoluto ricompreso tra i diritti riconosciuti e protetti dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani e dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Il cittadino si trova così provvisto, a seconda dell’ordinamento, di un diritto o di un interesse legittimo azionabili in Corte rispetto a comportamenti pubblici o privati devianti rispetto agli standard climatici dichiarati o appropriati. Tre corti europee di ultima istanza (Germania, Francia e Olanda) hanno già condannato i rispettivi governi a modifiche cautelative della loro regolazione in relazione al rischio ambientale; e una corte di prima istanza (Olanda) ha ingiunto a una società petrolifera (Shell) di accelerare la propria decarbonizzazione pena il riconoscimento di una responsabilità extracontrattuale per danni (potenzialmente, una class action con 8 miliardi di attori…). Negli Stati Uniti l’agire verde cerca poi anche di aprire altre vie, inclusa l’azione per responsabilità degli amministratori.
Confesso che almeno in salsa europea la green litigation un poco mi spaventa. Il giudice che in via interpretativa deduce un diritto e lo qualifica come assoluto sa benissimo che non esiste alcun diritto dichiarato giurisprudenzialmente assoluto che non confligga con un qualche altro diritto altrettanto assoluto. Molto semplicemente il giudice sta sottraendo alla Politica il compito di mediare tra diritti per affidarlo alla Giurisdizione.
(Estratto di un articolo pubblicato su Energia; qui la versione integrale)