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Sono realistiche le proposte di Confindustria contro il caro energia?

Ecco cosa si può fare - e cosa no - per ridurre i prezzi dell'energia in Italia. L'analisi di Sergio Giraldo.

Il discorso all’Assemblea plenaria di Bologna del presidente di Confindustria, Emanuele Orsini, ha riportato alla ribalta il tema caldo dei costi dell’energia in Italia.

Lo stesso Orsini ha fornito un elenco di possibili soluzioni al caro energia. La Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, pur usando toni comprensivi, ha sottolineato però che i conti dello Stato non permettono interventi sulle bollette come quelli visti in passato (circa 60 miliardi nel periodo 2022-2024).

Le ricette elencate da Confindustria per contrastare il caro energia prevedono il ricorso all’energia nucleare, la sospensione del sistema ETS, la riduzione degli oneri di sistema in bolletta, lo sblocco di 150 GW di impianti rinnovabili. Dal canto suo, Meloni, dopo aver a sua volta sottolineato l’importanza in prospettiva dell’energia nucleare, ha parlato dei contratti di lungo termine per diminuire la dipendenza dal prezzo del gas e di una analisi sulla formazione del prezzo dell’energia elettrica. Il sospetto del governo è che vi siano manovre speculative, il che sarebbe clamoroso ma anche difficile da dimostrare.

Sono queste soluzioni realistiche e utili? Lasciando da parte l’energia nucleare, ancora molto lontana anche nei piani del Governo, analizziamo l’attualità.

Una sospensione del sistema ETS è fattibile e utile. Servirebbe un accordo europeo, ma in passato altri stati non si sono fatti scrupoli sui temi energetici. L’acquisto di permessi di emissione è un obbligo che pesa sul costo dell’energia in maniera significativa. Qualche numero (fonte GSE): tra il 2012 e il 2024 le aste per le quote di emissione sono costate alle imprese italiane 18 miliardi di euro. Nel solo primo trimestre 2025 le aste hanno fruttato 655 milioni. Il che significa che nel 2025 il costo per le aste CO2 potrebbe essere pari a 2,5 miliardi circa.

Questo è il costo diretto per le imprese obbligate (chiunque bruci gas, carbone o petrolio per generare energia o calore e per i processi industriali), ma è solo la prima parte del problema: il costo della CO2 entra anche nella formazione del prezzo dell’energia elettrica. Con il costo delle aste attorno ai 70 €/tonnellata come ora, il peso della CO2 sul prezzo elettrico all’ingrosso (PUN) è di circa 28-35 €/MWh, cioè circa un terzo del prezzo dell’energia indicato da Orsini (attorno a 100 €/MWh).

La riduzione degli oneri di sistema è un tema complicato e di lunga data. Per come si è venuto cristallizzando il sistema, è molto arduo fare qualcosa per ridurre gli oneri, soprattutto se si vogliono tempi brevi. Questi costi derivano da meccanismi complessi difficili da smontare, se non attraverso una riforma abbastanza estesa del mercato. Un mercato già oggi in transizione verso le nuove regole del dispacciamento elettrico (TIDE) e verso una crescente rilevanza delle fonti rinnovabili. Una soluzione potrebbe essere quella già vista per brevi periodi in passato, ovvero un azzeramento in bolletta, ripagato dalla fiscalità generale. Meloni però ha detto chiaramente che non ci sono altri soldi per ridurre le bollette, quindi questa soluzione sembra esclusa.

150 GW di domande di connessione alla rete di impianti rinnovabili sono bloccati da lentezze burocratiche, sostiene Orsini nella sua relazione, e ciò tiene i prezzi dell’energia alti. In realtà, a fine 2024 le richieste di allaccio alla rete di Terna erano pari 348 GW, di cui 152 gigawatt per impianti fotovoltaici, per il resto eolici. Questa massa di impianti in realtà non esisterà mai, però. Il PNIEC, cioè l’impegno del governo verso la Ue, prevede al massimo 70 GW entro il 2030. Questa saturazione virtuale della rete è figlia di una marea di richieste indicative e non vincolanti per impianti che in realtà non vedranno mai la luce. Anche risolvendo il nodo burocratico, il contributo massimo delle rinnovabili sarà comunque meno della metà dei 150 GW indicati da Orsini.

Cosa altro si può fare? Si può agire sul prezzo del gas per abbassarlo, fornendo liquidità al mercato europeo. Un accordo europeo con gli USA per ricevere più GNL a prezzi concorrenziali (ad esempio legando il prezzo all’hub americano anziché al TTF) porterebbe più gas in Europa e dunque anche il prezzo al TTF si abbasserebbe.

Si potrebbero poi ridurre le accise sui consumi di energia elettrica e gas. Queste valgono circa 6-7 miliardi all’anno. Anche solo dimezzandole si avrebbe un vantaggio di almeno 3 miliardi. Per quanto riguarda le coperture, si potrebbe scalare questa cifra dai contributi da versare in futuro all’Unione europea.

Vi è poi il CBAM, meccanismo che prevede l’applicazione di una tassa sul carbonio sui prodotti importati in Ue (cemento, acciaio, alluminio, energia elettrica, fertilizzanti, idrogeno). Gli importatori dovranno acquistare certificati CBAM (prezzo attuale circa 70 €/tonnellata di CO2) per compensare le emissioni incorporate nei prodotti importati.  Un onere che avrà il solo effetto di far aumentare il costo dei prodotti importati. Ne risulta che per ridurre il costo dell’energia è necessario lavorare non solo su Roma ma soprattutto su Bruxelles.

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