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Cambiamenti Climatici

Come conciliare investimenti, profitto e crescita verde. Idee, problemi e contraddizioni

L'intervento di Marta Dassù e Roberto Menotti

 

La speranza è di innescare, attraverso la leva ambientale, dinamiche virtuose di efficienza economica (grazie a innovazioni tecnologiche selettive), profitto (con creazione di posti di lavoro) e crescita sostenibile; il tutto con politiche statali attive per la redistribuzione e la gestione “equa” dei costi.

L’assunto (largamente ottimistico, a noi pare) è che, a fronte di un quadro regolatorio adeguato, il business e gli stessi cittadini diventeranno protagonisti attivi della transizione, e non soltanto svogliati oggetti passivi di imposizioni governative o di scelte dei produttori. Una parte di questo meccanismo dovrebbe passare per un maggiore utilizzo di incentivi positivi, invece che di penali e divieti – anche in base alla considerazione che la competizione crescente nei settori ad alta sostenibilità crea di per sé opportunità economiche e che dunque gli “early movers” avranno un vantaggio comparato.

Sempre guardando alla dimensione politico-ideologica, alcune posizioni “radicali” (come quelle di Naomi Klein, da sempre su posizioni anticapitaliste) auspicano oggi una saldatura tra ambientalismo e trasformazione economica verso un nuovo “social compact”. (Si veda “Changing the game: Why tackling environmental and economic problems must coincide”, Times Literary Supplement, 7 giugno 2019.)

L’obiettivo, insomma, non è solo la crescita a zero emissioni ma anche la lotta alle disuguaglianze (compreso reddito minimo e/o lavoro garantito per tutti) e soprattutto la guerra aperta alle multinazionali. Qui le cose si complicano, perché la trasformazione che è stata avviata ha bisogno, per riuscire, di tutte le eccellenze nel campo dell’innovazione. E dovrà essere accompagnata da scelte flessibili e pragmatiche, proprio per garantirsi un consenso sufficiente – basti pensare all’esperienza di Emmanuel Macron con i gilet gialli, le cui proteste furono scatenate inizialmente dal tentativo di imporre una tassa “verde” sui carburanti.

La questione, ancora più ampia delle critiche al capitalismo sotto mentite spoglie ambientaliste, è che esistono numerosi trade-off, ossia forti costi da sopportare e quindi da distribuire prima che i vantaggi risultino tangibili. Si aggiungono una serie di dilemmi da affrontare con un approccio più consapevole. Facciamo un primo esempio: nessun regolatore o agenzia governativa sa in anticipo e con precisione quale specifica tecnologia maturerà prima e meglio per risolvere un problema di emissioni nocive. Se ciò fosse davvero chiaro, gli investitori internazionali si concentrerebbero su singoli settori, la cui produzione non avrebbe alcun bisogno di incentivi. Poiché non è così, i finanziamenti pubblici (o pubblico-privati che siano) dovranno essere diversificati, piuttosto che focalizzati; il che a sua volta implica una certa dispersione di risorse, lasciando che il mercato sperimenti varie soluzioni alternative, alcune delle quali falliranno del tutto.

Mentre si sviluppano le auto elettriche, ad esempio, è bene forse continuare il lavoro sull’idrogeno come fonte energetica. Insomma: è davvero semplicistica l’idea che i governi (o qualunque organizzazione internazionale) sappiano usare con precisione chirurgica la spesa pubblica per sostenere i “campioni” tecnologici di settori all’avanguardia della sostenibilità; l’esperienza insegna, del resto, che la ricerca di base (cruciale per l’innovazione) necessita di finanziamenti a lungo termine senza garanzie di successo commerciale. In qualche misura, si dovrà procedere per tentativi.

Un secondo esempio può essere questo: gli investimenti in progetti pluriennali di riconversione verde su larga scala richiedono quasi sempre aziende di grandi dimensioni, ma ciò contrasta con la volontà di limitare (se non attivamente combattere) gli oligopoli e distribuire (invece di concentrare) i profitti. La tutela della concorrenza può però frenare l’innovazione, che richiede massicci flussi finanziari.

È probabile allora che serva un mix di grandi aziende e innovatori più agili (e spesso più creativi), anche a vantaggio di mercati tecnologici competitivi e dinamici come volano di una trasformazione strutturale.

In conclusione, conviene diffidare di una rivoluzione verde presentata come un passaggio alla frugalità e magari alla decrescita. Non si tratta infatti di tornare a un mitico passato bucolico preindustriale, ma di guardare avanti con tutti gli strumenti a nostra disposizione.

 

Estratto di un articolo pubblicato su aspeniaonline.it

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