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Uranio

Tutti i piani della Cina per l’uranio

La Cina ha lanciato una strategia per accaparrarsi grandi quantità di uranio per le centrali nucleari. Rischi in vista per l'Occidente?

L’impegno preso alla COP28 da 22 Paesi tra cui gli Usa di rilanciare il nucleare come fonte di energia pulita e sicura deve confrontarsi con due problemi ben evidenziati in un recente approfondimento del Financial Times: il controllo in mani russe di quasi il 50% della capacità globale di arricchimento dell’uranio e l’incetta che un Paese come la Cina, che da tempo punta sul nucleare, sta facendo sui mercati della stessa offerta mondiale di uranio.

Corsa all’uranio

È corsa all’uranio in giro per il mondo, scrive il Financial Times indicando una minaccia alle forniture della preziosa commodity per molti Paesi rappresentata da una Cina che ne sta facendo incetta dappertutto.

Come testimonia al Ft André Liebenberg, ceo di uno dei maggiori veicoli di investimento al mondo dell’uranio come Yellow Cake, l’Occidente sta cedendo il passo a Pechino mentre le imprese cinesi continuano ad acquistare uranio nel mercato aperto, rilevando miniere e firmando contratti a lungo termine, contribuendo non poco all’impennata di prezzi che hanno raggiunto il massimo degli ultimi 15 anni.

Boom dei prezzi

L’uranio, rileva la testata finanziaria, è una delle commodities che ha registrato la miglior performance quest’anno, crescendo di ben il 70% e raggiungendo una quotazione di 81 dollari per libra, il livello più alto dal 2017.

Rilancio del nucleare

A contribuire a questo andamento c’è il ritorno di interesse verso una energia considerata pulita da molti governi insieme alla decisione di estendere la vita di molti impianti e a quella di costruire nuovi reattori; il tutto, sottolinea il quotidiano della City, sullo sfondo di prezzi del gas letteralmente esplosi l’anno scorso.

Non è dunque un caso che alla COP28 attualmente in chiusura a Dubai, 22 Paesi hanno formulato l’impegno a incrementare sensibilmente la capacità nucleare globale di qui al 2050, in un segnale prontamente recepito da un mercato già in fibrillazione.

Sembra dunque ormai concluso quel ciclo discendente iniziato dopo il disastro nucleare di Fukushima del 2011 e che ha portato a una significativa contrazione degli investimenti in nuova produzione e a un drammatico eccesso di offerta.

Il successo di Yellow Cake

Niente simboleggia meglio questo fermento della parabola della stessa Yellow Cake. La società vanta un accordo decennale col più grande produttore al mondo di uranio, la kazaka Kazatomprom, per acquistare 100 milioni di dollari l’anno del minerale da stoccare nei depositi del Canada e della Francia.

Yellow Cake controlla oggi circa il 20% dell’offerta globale di uranio, un predominio che, combinato all’ascesa dei prezzi, ha provocato quest’anno un balzo del suo titolo in borsa del 54%, portando la sua capitalizzazione a 1,3 miliardi di sterline.

Incetta cinese

Tutti gli occhi sono ora puntati sulla Cina che rappresenta il secondo produttore mondiale di energia nucleare e che esprime quasi la metà di tutti i nuovi reattori in costruzione a livello globale.

Pechino si ripromette di raggiungere l’autosufficienza nell’approvvigionamento del combustibile nucleare attraverso il triplice obiettivo di produrre internamente un terzo del suo fabbisogno di uranio, di ottenere un altro terzo rilevando miniere straniere e di comprare il rimanente terzo sul mercato.

I due colossi pubblici China National Uranian Corporation e China General Nuclear Power Group hanno già acquistato partecipazioni in miniere del Niger, della Namibia e del Kazakistan, mentre CNUC sta costruendo un deposito nello Xinjiang, vicino al confine kazako, nell’intento di farne un grande hub dell’uranio.

Il fattore Russia

La spinta cinese a far man bassa dell’offerta globale di uranio non è l’unica fonte di preoccupazione per un Occidente costretto a misurarsi col fatto che la Russia di Putin controlla quasi la metà della capacità mondiale di arricchimento dell’uranio.

Il problema viene spiegato bene da Liebenberg: se la Russia dovesse interrompere le forniture all’Occidente, le utilities affronterebbero per almeno 5 anni notevoli difficoltà a costruire catene alternative di approvvigionamento.

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