Venerdì scorso la Russia ha comunicato una diminuzione del 5% della produzione di greggio a partire dal prossimo marzo. Una riduzione secca dell’output di 500.000 barili al giorno. Il comunicato del vice primo ministro russo Alexander Novak ha spiazzato il mercato, che ha reagito immediatamente con un aumento dei prezzi del Brent del 2,5%, in parte rientrato ieri.
La Russia è pur sempre il secondo esportatore mondiale di greggio. Poco dopo, l’OPEC+ ha fatto sapere di non avere in vista aumenti della produzione per compensare la minor produzione di uno dei suoi membri. Il prezzo del petrolio Brent è comunque salito dell’8% nell’ultima settimana. Nel breve termine l’impatto reale della decisione russa sui volumi fisici non è molto significativo, visto che c’è molto petrolio in giro e la domanda cinese non è poi così travolgente. Ma la mossa di Mosca è certamente una risposta all’allargamento dell’embargo ai prodotti petroliferi e al price cap su questi, iniziato il 5 febbraio scorso.
COSA PREVEDONO LE SANZIONI ENERGETICHE DI UE, G7 E AUSTRALIA CONTRO LA RUSSIA
Le sanzioni che Unione europea, G7 e Australia hanno imposto dopo l’invasione dell’Ucraina contengono il divieto assoluto di comprare o rivendere petrolio e prodotti petroliferi provenienti dalla Russia, nonché il divieto di trasportare e fornire servizi, oltre all’applicazione di un prezzo massimo (60 dollari al barile per il greggio, 100 dollari al barile per il diesel) per le transazioni degli stessi prodotti tra paesi terzi. Scopo delle sanzioni è di ridurre le entrate del Cremlino per fiaccarne l’economia di guerra, cercando però di non generare scarsità dei prodotti oggetto delle sanzioni. Ma è solo dopo aver macinato record nel 2022, grazie ai prezzi altissimi del gas, che il fatturato energetico di Mosca ora inizia a scendere visibilmente.
L’obiettivo secondario delle sanzioni, cioè non provocare contraccolpi sul mercato fisico del petrolio, difficilmente sarà raggiunto. Rispetto alle normali condizioni di mercato, infatti, le sanzioni rappresentano una turbativa che ha già rivoluzionato la logistica del petrolio greggio proveniente dalla Russia e che ora condizionerà anche quella dei prodotti raffinati.
COSA FANNO INDIA E CINA
Il primo effetto che si è verificato, di cui abbiamo parlato ampiamente, è che l’India sta assumendo il ruolo di trasformatore per conto dell’Europa mai ricoperto prima. Comprando il greggio russo e rivendendo in occidente benzina e gasolio, i raffinatori indiani stanno intascando una buona parte del ricco spread nominale tra il costo del greggio Urals e i 110-115 dollari al barile del prezzo del diesel in Europa.
Il secondo effetto è che la Cina sta assorbendo quote crescenti di greggio russo per trasformarlo nelle sue raffinerie, godendo quindi di prezzi più bassi, anche se in questo caso il petrolio è della qualità ESPO blend, più caro dell’Urals. Nel mese di gennaio le importazioni cinesi di greggio russo sono balzate al record di 8,57 milioni di tonnellate e la Russia ha scalzato l’Arabia Saudita dal primo posto come fornitore. Secondo alcune stime, l’acquisto del greggio russo scontato ha fruttato alla Cina nel 2022 un vantaggio di costo pari a circa 5 miliardi di dollari. Il terzo effetto è che il Brasile sta diventando un mercato di sbocco per i prodotti petroliferi russi. Il risultato di tutto ciò è che si approfondiscono e si stringono i legami dei paesi BRICS, polarizzando l’economia mondiale in due blocchi.
LO SPREAD PETROLIFERO
Ma nelle pieghe delle risposte del mercato alle sanzioni c’è anche altro. Innanzitutto, lo spread artificiale creato tra il price cap sul greggio russo a 60 $/bbl e il price cap sul diesel a 100 $/bbl rappresenta un margine teorico di raffinazione (crack) di tutto rispetto, che resta in tasca ai raffinatori russi. In sostanza, fino a che i prezzi del diesel restano in occidente sopra i 100 $/bbl, il margine di raffinazione russo è ricco e stabile sui 40 $/bbl: condizioni ideali per qualsiasi impresa.
In secondo luogo, lo spread tra petrolio Urals esportato (che costa sui 50 $/bbl) e gli altri petroli (sopra gli 80$/bbl) non finisce tutto ai raffinatori. Sul greggio esportato dalla Russia intervengono infatti due elementi ulteriori, il trasporto e il trading. Il divieto di trasporto introdotto con le sanzioni ha costretto i russi ad offrire di più ai trasportatori non occidentali per muovere greggio e prodotti, visto che la flotta russa di cisterne non è sufficiente. Produttori e trader offrono il greggio Urals con 15-20 dollari di sconto sul prezzo medio di altri greggi agli acquirenti asiatici e pagano altrettanto alle compagnie di navigazione per trasportare greggio e prodotti.
Così si spiegano i dati comunicati dal ministero delle Finanze di Mosca pochi giorni fa. Secondo l’autorità russa, i produttori di petrolio del paese hanno ricevuto nel gennaio 2023 in media 49,48 dollari al barile per il greggio Urals, in calo del 42% rispetto ai prezzi del gennaio 2022, 10 dollari sotto il price cap e con uno spread di 30-35 dollari al barile rispetto al Brent. Parte di questo spread è finito nei margini di raffinazione indiana, un’altra parte più piccola è andata agli intermediari e intorno ai 15 dollari al barile sono andati per l’uso delle navi cisterna alle compagnie di navigazione. Queste, con un costo reale per il trasporto attorno a 1,5 $/bbl, intascano quindi margini iperbolici.
FARE I CONTI ALLA RUSSIA
Ai minori ricavi per i produttori di petrolio russi fanno quindi da contraltare i maggiori profitti da intermediazione per i trader, una buona parte dei quali sono russi. Anche alcune compagnie di raffinazione indiane vedono importanti partecipazioni azionarie russe. Inoltre, alcune compagnie navali che trasportano il greggio sono russe. Ci sono poi compagnie europee che hanno ceduto alcuni vecchi vascelli a società la cui sede è nella penisola arabica e che ora trasportano i prodotti petroliferi russi. Come è noto, Arabia Saudita e altri paesi del Medio Oriente non applicano le sanzioni occidentali.
In conclusione, l’idea di colpire la Russia nel portafoglio non sta semplicemente riducendo i guadagni di Mosca ma sta portando a una ristrutturazione del mercato petrolifero i cui esiti al momento sono assai incerti.