Due delle più grandi aziende produttrici di shale oil americano, Diamondback e Coterra, hanno fatto sapere che ridurranno gli investimenti in risposta al calo dei prezzi internazionali del petrolio. Se il resto dell’industria dovesse fare lo stesso, la produzione petrolifera degli Stati Uniti – la più vasta al mondo – potrebbe iniziare a diminuire, complicando i piani del presidente Donald Trump per il rafforzamento del “dominio” americano sui mercati energetici, che vorrebbe venisse raggiunto a suon di trivellazioni: uno dei suoi motti è, appunto, drill, baby, drill.
GLI ANNUNCI DI DIAMONDBACK E COTERRA
Diamondback, uno degli attori principali nel bacino Permiano del Texas occidentale (il più grande campo petrolifero negli Stati Uniti), ha dichiarato che il numero delle operazioni di fracking si è già ridotto del 15 per cento quest’anno e continuerà a diminuire a meno di una risalita dei prezzi del petrolio. L’azienda taglierà 400 milioni di dollari dal budget per gli investimenti nel 2025, che quindi si aggirerà sui 4 miliardi, e abbandonerà tre siti di trivellazione.
Stando alle stime di Diamondback, il numero di siti di perforazione attivi negli Stati Uniti diminuirà del 10 per cento entro la fine di giugno e calerà ulteriormente nel terzo trimestre dell’anno: la produzione di shale oil potrebbe insomma aver raggiunto il picco massimo questo trimestre, dopodiché inizierà il declino.
L’altra azienda, Coterra, ha tagliato leggermente le spese per gli investimenti nel 2025 (arriveranno a un massimo di 2,3 miliardi di dollari, anziché 2,4 miliardi); nel secondo semestre dell’anno, poi, limiterà la sua attività nel bacino Permiano a sette siti di perforazione, anziché dieci.
LA MOSSA DELL’OPEC+ SUL PETROLIO DANNEGGIA I TRIVELLATORI AMERICANI
Lunedì i prezzi internazionali del petrolio sono scesi ai minimi da quattro anni – il Brent è arrivato a 60 dollari al barile, il West Texas Intermediate a 57 dollari – dopo che l’Opec+, cioè il cartello che riunisce alcuni dei principali paesi esportatori, ha annunciato un nuovo aumento della produzione da giugno.
I prezzi sono calati perché il mercato prevede una situazione di sovrabbondanza dell’offerta rispetto alla domanda: all’incremento dell’output da parte dell’Opec+ si sommano infatti i timori di un rallentamento dell’economia globale (e quindi della richiesta di energia) a causa dei dazi commerciali imposti dall’amministrazione Trump.
Uno scenario di bassi prezzi del greggio potrebbe rivelarsi dannoso per i petrolieri americani perché molti di loro potrebbero non riuscire a riportare profitti sotto i 60 dollari al barile, perlomeno nei campi di shale oil più vecchi e meno produttivi: dovrebbero aprirne di nuovi ma il contesto, come detto, è poco favorevole agli investimenti in nuova capacità estrattiva. Il rischio è che, ai prezzi attuali, gli Stati Uniti possano perdere quote nel mercato petrolifero, che finirebbero nelle mani dei paesi dell’Opec+ più efficienti sotto il profilo dei costi: sarebbe un danno per la energy dominance americana inseguita da Trump.
Trump, però, ha accolto con favore il calo dei prezzi del petrolio perché potrebbero permettere di ridurre il tasso di inflazione: la sua agenda energetica punta contemporaneamente a stimolare i produttori e a garantire bassi prezzi dell’energia ai consumatori, ma le due cose possono entrare in contraddizione.
COSA HA FATTO L’OPEC+ E GLI OBIETTIVI DELL’ARABIA SAUDITA
L’Opec+, capeggiato dall’Arabia Saudita e dalla Russia, ha deciso di accrescere la produzione petrolifera di 411.000 barili al giorno a partire da giugno, replicando sostanzialmente l’aumento già stabilito nelle scorse settimane per il mese di maggio.
In teoria, il ruolo dell’Opec è quello di “bilanciare” il mercato attraverso la regolazione dell’offerta in modo da mantenere i prezzi del greggio a un livello accettabile per i paesi membri del cartello, le cui finanze dipendono in larga parte proprio dalla vendita di combustibili fossili. Adesso, però, il mercato non sembra richiedere quantità aggiuntive di barili.
La mossa dell’Opec+ potrebbe allora essere stata voluta dall’Arabia Saudita per punire quei paesi membri che non rispettano le quote produttive massime (ad esempio il Kazakistan e l’Iraq), oppure per ingraziarsi Trump (che, come detto, ha festeggiato la discesa dei prezzi del petrolio). Tra le altre cose, l’Arabia Saudita ricerca la collaborazione degli Stati Uniti per lo sviluppo di una propria industria dell’energia nucleare.
La decisione di aumentare la produzione petrolifera facendo scendere i prezzi, però, potrebbe rivelarsi un motivo di sofferenza anche per la stessa Riad: il regno ha bisogno di prezzi al barile superiori ai 90 dollari per coprire la propria spesa pubblica e finanziare i (costosi) piani di riconversione economica.
Pure la Russia ha bisogno di alti prezzi del petrolio per garantirsi ricche entrate con le quali finanziarie la guerra all’Ucraina. È possibile che Mosca non si sia opposta all’aumento dell’output dell’Opec+ per migliorare la sua immagine di fronte all’amministrazione Trump.