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Cina

Xi Jinping riuscirà a rianimare l’economia cinese?

Cina, se la battaglia al virus frena l’economia. L'analisi di Giovanni Buffa, Senior Fund Manager di AcomeA SGR

 

Dopo tre anni molto positivi per le Borse internazionali, il 2022 si sta dimostrando un anno difficile non solamente per i mercati azionari emergenti, ma anche per quelli sviluppati.

Le ragioni sono comuni e riconducibili principalmente a queste cause:

  1. Un’inflazione estremamente elevata che sta spingendo le banche centrali, in particolare la Fed, ad essere molto aggressive nelle loro politica monetaria, creando rischi di rallentamento o addirittura di recessione;
  2. La guerra in Ucraina con conseguente rialzo dei prezzi delle materie prime, in particolare energetiche e alimentari, che, sulla scia di quanto avvenuto nel 2021, continua a generare inflazione e problemi di marginalità per molte aziende;
  3. Il rallentamento dell’economia cinese indotto dalla strategia domestica di contenimento della pandemia (la cosiddetta “zero covid strategy”o ZCS) che prevede lockdown molto severi e lunghi, che stanno paralizzando le supply chain di molti settori e provocando un crollo dei consumi e della domanda interna;
  4. Un dollaro molto forte che rappresenta una variabile fondamentale per gli emerging markets ed è negativamente correlata alla loro performance.

Non deve quindi sorprendere la reazione delle Borse, con l’indice Msci Em Asia in $ che registra perdite da inizio anno di quasi il 14% con punte del 15% per quanto riguarda il mercato cinese. Con rare eccezioni (come il Cile) anche i mercati emergenti di altre aree geografiche non sono stati brillanti con l’indice generale Msci Em Tr in euro in rosso di circa il 7%.

La Cina è stata nell’ultimo decennio il vero motore di crescita dell’economia globale e il suo mercato rappresenta ben 1/3 dell’intero Msci Em. Negli ultimi due anni, tuttavia, le Borse locali sono state penalizzate rispetto al resto dei mercati. L’Msci China nel 2021 ha infatti perso il 22,4% che, sommato alle perdite dell’anno in corso, porta ad una perdita cumulata di quasi il 40% con un drawdown dai massimi di febbraio 2021 di quasi il 35%.

I motivi del sell off sono chiari:

  • Stringente regolamentazione del settore tecnologico;
  • Stretta sul mercato immobiliare che rappresenta ancora una fetta molto importante dell’economia del paese;
  • Transizione economica ancora lontana dai target di consumi interni prefissati dal governo;
  • Tensioni con gli Stati Uniti e Taiwan e generale diffidenza ad investire in aziende la cui scarsa trasparenza di bilancio e i connessi rischi geo-politici sono più elevati che mai.

A questi fattori vanno aggiunte le recenti misure anti-Covid, che stanno determinando un rallentamento economico molto significativo, per certi versi paragonabile, anche se in misura ridotta, a quanto avvenuto nei paesi occidentali durante la prima ondata di Covid. La città più colpita è Shanghai, dove milioni di persone sono confinate in casa da svariate settimane, tanto che le vendite al dettaglio nel mese di aprile sono crollate del 48%.

Molte attività sono chiuse e per mantenere la produzione nei settori strategici i lavoratori sono costretti a vivere isolati nelle fabbriche. Gestire una variante contagiosa come l’Omicron illudendosi di poter azzerare i contagi sembra però una battaglia persa, in particolare se si considera l’immensa popolazione del paese (oltre 1400 mln di abitanti).

Queste politiche, unite alla dispendiosa campagna di screening della popolazione, implicano significativi costi economici diretti e indiretti. In autunno si terranno le elezioni del Segretario Generale del Partito Comunista cinese  e sembra ormai probabile la rielezione di Xi Jinping per il terzo mandato.

Malumori circa la gestione della pandemia cominciano però a serpeggiare tra alcuni membri del Partito Comunista, della community di imprenditori e tra la popolazione, cosa piuttosto rara in un paese autarchico come la Cina, tanto che lo stesso Politburo, il massimo organismo decisionale del PCC, ha dovuto emettere un comunicato in cui promette di reprimere ogni forma di dissenso sulla politica di controllo del Covid nel paese.

Xi è la figura dietro la quale nasce la ZCS, dunque appare altamente improbabile un completo dietrofront da parte del governo cinese su questo tema, almeno sino alle elezioni autunnali. Tuttavia, arrivare a queste ultime con l’economia in ginocchio e con un tasso di disoccupazione elevato soprattutto tra i giovani non giova di certo alle sue chance di rielezione.

Quello che ci aspettiamo possa accadere nelle prossime settimane/mesi è quindi un allentamento delle politiche restrittive della ZCS che possano dare un po’ di respiro all’economia, in particolare ai consumi.

Contemporaneamente il governo cinese sta implementando una serie di misure a supporto dell’economia di natura monetaria e fiscale che dovrebbero dare i loro frutti prossimamente, anche se la parziale inefficacia dei canali di trasmissione all’economia reale durante i lockdown limiteranno di molto i benefici nell’immediato. Il punto di svolta, a nostro avviso, potrebbe essere rappresentato da un supporto diretto ai consumi, sulla scia di quanto avvenuto nei paesi occidentali durante la pandemia. Le misure attuate fino ad oggi hanno, infatti, principalmente riguardato tagli di tasse e di contributi e un aumento della spesa infrastrutturale, mentre ben poco è stato fatto per supportare le famiglie e i loro consumi. Qualora queste misure fossero implementate e lo scenario di una crescita azzerata nel 2022 fosse scongiurato, il mercato reagirebbe in modo molto positivo.

Al di là di quello che potrebbe succedere (nessuno possiede la sfera di cristallo), è palese che il governo di Pechino sia sotto un enorme pressione nel tentativo di rianimare un’economia anemica con annunci quasi quotidiani di nuove misure fiscali, regolatorie e monetarie. Cionondimeno il mercato rimane scettico sulle misure attuate sino ad oggi, prezzando nei titoli uno scenario molto negativo. L’indice Msci China tratta infatti ad appena 11x gli utili attesi e a circa 9x quelli stimati per il 2023. I titoli internet cinesi sono passati da essere considerati titoli growth a titoli value; basti pensare che Alibaba è passata da trattare a 60x gli utili a inizio 2021 ai 12x attuali, con quasi metà della sua market cap rappresentata da disponibilità liquide a bilancio.

In questo contesto difficile ci siamo mossi in modo coerente con il nostro approccio alla gestione value contrarian, accumulando posizioni in particolare sul mercato cinese per sfruttare la sua debolezza, avendo ben presente che gli investimenti azionari sono fatti per il medio/lungo periodo e che nel breve, a meno di drastici cambi di prospettive, la volatilità va sfruttata a proprio vantaggio se supportata da valori fondamentali.

Riteniamo che il Covid sarà solo una parentesi per l’economia cinese, così come lo è stato per le economie sviluppate, e che i prezzi di oggi non riflettono i valori fondamentali di molte aziende cinesi. Certo, la volatilità rimarrà elevata ancora per qualche tempo e il Covid non rappresenta l’unico problema del paese: le relazioni con gli Stati Uniti e le tensioni geopolitiche nel Pacifico, i rapporti con Russia e Taiwan, l’incertezza regolatoria e la demografia sono nodi che andranno risolti e che giustificano un premio al rischio più elevato, ma va sottolineato che alle valutazioni attuali molte di queste negatività sembrano essere già ampiamente scontate nei prezzi.

Attualmente circa il 36% del fondo AcomeA Paesi Emergenti è investito in Cina, mentre sono state mantenute le esposizioni a Sud Corea, Taiwan, Brasile, Sud Africa, Grecia e Australia. Il fondo è un all cap che può dunque prendere posizioni sulle cosiddette blue chip stocks a larga capitalizzazione, ma anche su società a piccola e media capitalizzazione, che al momento pesano circa il 50% del portafoglio.

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