In questi giorni i media stanno dando un significativa attenzione alle azioni di pestaggio condotte ai danni dei lavoratori in imprese a conduzione cinese del distretto tessile pratese. Mi sono interessato per molti anni dell’organizzazione del distretto pratese e, sino ad una diecina d’anni fa, ho intrattenuto rapporti di collaborazione con varie istituzioni cinesi acquisendo una conoscenza teorico-pratica del mondo produttivo cinese.
Il distretto tessile pratese è stato caratterizzato per lunghi decenni dalla assenza di conflittualità sindacale. La realtà delle piccole imprese familiari aveva permesso alla città di Prato di assorbire nel periodo dagli anni ‘50 agli anni ‘80 dello scorso secolo ca. 60.000 immigrati (provenienti dal sud dell’Italia), passando senza traumi da ca. 120 mila abitanti a più di 180 mila abitanti in un periodo di 30 anni. L’immigrato non veniva semplicemente assunto in una piccola impresa ma veniva anche accolto nella famiglia che dell’impresa era titolare. Il sistema pratese faceva fronte ad eventuali necessità di aumentare la produzione e/o ridurre i costi facendo perno sull’esternalizzazione o sulla concentrazione. Quando c’era bisogno di ridurre i costi i dipendenti venivano invitati a mettersi in proprio, magari ricevendo in comodato il telaio. Mai si erano verificate situazioni di contrapposizione tra datori di lavoro e dipendenti. Anche perché tutti i dipendenti aspiravano a diventare datori di lavoro, cosa realizzabile nel sistema pratese.
Eppure la scoppio recente della violenza per reprimere l’azione sindacale non mi sorprende. Non sono sorpreso per due motivi. Innanzitutto perché a partire dagli anni ‘90 dello scorso secolo a Prato si è installata ed è cresciuta la comunità cinese più grande della UE, comunità che sino ad ora non si è minimamente integrata nella città di Prato. Delle diverse centinaia di imprenditori cinesi che operano a Prato solo due si sono iscritti all’Unione industriale di Prato. Delle diverse decine di migliaia di cinesi che abitano a Prato non credo che ve ne sia uno solo eletto nel Consiglio Comunale, anche se la legislazione italiana permette di partecipare attivamente alla politica locale persino senza la nazionalità italiana o comunitaria.
Il secondo motivo alla base della mia assenza di sorpresa è riconducibile alla mia convinzione che, a ben guardare, lo scoppio di questa violenza può e deve essere interpretato come un adeguamento della prassi imprenditoriale cinese alle condizioni delle società occidentali. Vediamo di approfondire questo punto. Nel modo di pensare cinese manca completamente l’idea di individuo. Manca la parola “io”. Il figlio non dirà mai al padre: ”domani vado a scuola”. Userà una circonlocuzione del tipo onorevole padre pensa che il suo indegno figlio domani potrà osare di andare a scuola?”. L’individuo è totalmente trainato dal gruppo e dipende dal gruppo. Nelle scuole elementari a Prato si è visto che i bambini cinesi vanno messi in classi esclusivamente cinesi, altrimenti, impauriti, i bambini abbandonano la scuola. Quando si negozia con una realtà cinese bisogna rendersi conto che la persona con cui si sta trattando è una semplice appendice del gruppo di cui fa parte e, in effetti, non ha alcun potere di rappresentanza. L’individuo non concepisce la contrapposizione perché si percepisce come troppo debole e totalmente dipendente dal gruppo a cui deve la sua esistenza. La contrapposizione sindacale mina alla base la stabilità mentale cinese e attiva meccanismi di reazione e difesa estremi. La violenza per reprimere le libertà sindacali non deve quindi sorprenderci.
Questo atteggiamento è pervasivo attraverso tutti i gangli del sistema cinese. Importante è capire come funziona a livello di impresa. Durante un corso che ho tenuto (in Inglese) all’università di Xiamen ad un gruppo di giovani docenti universitari di diritto, economia e scienze sociali mi è capitato di usare l’espressione double entry bookkeeping (contabilità a partita doppia). Nessuno dei miei interlocutori conosceva il concetto! Ho provato a spiegarlo con degli esempi, evidenziando che una impresa è caratterizzata da rapporti in entrata e uscita con i suoi interlocutori (clienti e fornitori). Per ogni cosa che entra deve esserci qualcosa che esce. “Per avere le prestazioni del personale l’impresa deve pagare uno stipendio”. Con mia sorpresa mi è stato obiettato che raramente questo è vero visto che di solito il personale è pagato dal Comune! Ho poi continuato portando come ulteriore esempio il fatto che l’impresa, per avere la disponibilità del terreno dove installa i suoi impianti, deve pagare o un prezzo di acquisto o un affitto. Anche qui mi è stato obiettato che il terreno viene messo a disposizione dal comune! Ho poi tentato di ragionare di costi e prezzi. Ne è emersa una visione chiaramente precapitalistica dove la controprestazione non è riconducibile né al costo di produzione né ad un qualche valore determinato dal rapporto domanda e offerta ma alla posizione reciproca nella scala del prestigio sociale di chi vende e di chi acquista.
Ho avuto per diversi anni rapporti di collaborazione con la professoressa Luo Hong Bo, direttrice della sezione “economia italiana” dell’Accademia delle Scienze di Pechino. La prof. Luo Hong Bo mi ha chiramente spiegato che l’economia cinese è imperniata su un centinaio di grandi imprese formalmente private ma di fatto pubbliche, tutto il restro gira attorno a queste imprese. Alibabà formalmente è una grande impresa privata. Ma quando il suo “proprietario” Jack Ma ha sgarrato è subito stato messo da parte. Del resto il diritto di proprietà in Cina è sostanzialmente un diritto d’uso acquistabile per un tempo determinato e di cui si può venir facilmente privati.
Da tutto questo vanno tratte un paio di conclusioni. Innanzi tutto non ha alcun senso cercare di impostare negoziazioni con i cinesi basate sul principio che, per avere rapporti commerciali corretti, si deve garantire la libertà di mercato e si devono evitare aiuti di stato. “Mercato” e “aiuti di stato” sono concetti che per un cinese non hanno alcun significato! Va poi tenuto presente che il potere economico della Cina non è dovuto al fatto di avere una organizzazione del lavoro ed istituzionale efficiente ma al fatto che, in Cina, diverse centinaia di milioni di persone sono spremute a livelli inverosimili, non migliori dello schiavismo dei secoli scorsi e non ad una efficace organizzazione del lavoro. L’impresa cinese è caratterizzata da un livello di confusione parossistica. Alla fine della seconda guerra mondiale gli americani hanno invaso i nostri mercati grazie alla loro cultura d’impresa che ci hanno trasferito. I cinesi invadono i nostri mercati grazie alla cultura dello sfruttamento. Ad evitare di importare dalla Cina non solo i suoi prodotti di scarsa qualità ma il sistema sociale di tipo feudale, i rapporti commerciali con la Cina vanno ridisegnati ab imis!