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Spread Recovery Fund

Vi svelo le bufale giallo-rosse su spread e interessi. L’approfondimento di Liturri

L'analisi di Giuseppe Liturri

 

“…Abbiamo già risparmiato in poche settimane centinaia di milioni in interessi sui titoli di Stato: l’anno e mezzo passato ci è costato quasi 20 miliardi di interessi sottratti alle tasche degli italiani, sottratti alle politiche di lavoro e di sviluppo, sottratti alle imprese e alle famiglie…”.

Con queste parole, pronunciate nella dichiarazione di voto a favore della fiducia al governo Conte il 9 settembre alla Camera, il capogruppo del Pd, Graziano Delrio, conquistava il podio nella corsa a sparare la cifra più grossa sui maggiori costi per interessi attribuibili all’ormai ex governo Conte 1.

Quella affermazione faceva il paio con l’altra bufala circolata sui media inneggianti al governo amico dell’Europa (sorgono dubbi se l’Europa ricambierà l’amicizia), e relativa al presunto tesoretto per il risparmio di interessi conseguente al crollo dei rendimenti dei Btp avvenuto negli ultimi giorni, in coincidenza con la formazione del nuovo governo.

Tali affermazioni non reggono alla prova dei fatti che deve essere però preceduta da una doverosa premessa di metodo, per la cui banalità mi scuseranno gli addetti ai lavori.

La variazione dello spread non incide sul costo per interessi da parte dello Stato, è infatti una differenza tra rendimenti (il nostro Btp ed il Bund tedesco). Tale differenza può essere benissimo causata da movimenti anche solo del Bund, senza che vari un centesimo nel rendimento dei Btp. Ciò che conta è il rendimento del Btp spuntato in asta, che è fortemente correlato al rendimento del titolo sul mercato secondario (su cui si calcola lo spread).

Ma anche osservando quest’ultimo tasso, stabilire una relazione monocausale tra atti politici o, peggio, dichiarazioni rilasciate dal politico ‘euroscettico’ di turno estrapolate ad arte dal contesto di riferimento, e tale tasso significa compiere un errore ancora più grave della semplice osservazione dello spread. Tentare di isolare l’effetto politico nel movimento dei tassi di uno dei titoli di Stato più liquidi al mondo è davvero un esercizio complesso e privo di riscontri controfattuali. Nessuno potrà mai dire cosa sarebbe accaduto se un presunto atto politico definito ostile verso i mercati, spesso portato come unica causa del rialzo dei tassi, non si fosse verificato.

Ma vi è di più. Come noto, dal marzo 2015 la Bce, tramite Banca d’Italia, è uno dei più grandi compratori di titoli di Stato italiani, arrivando a detenerne a fino giugno circa €400 miliardi (il 20% circa del totale). Come conseguenza, gli interessi su quei titoli rientrano nella casse dello Stato tramite il bilancio di Banca d’Italia. Tale programma è terminato a dicembre 2018, raggiungendo un massimo di acquisti mensili pari a €80 miliardi, importo poi ridotto nel 2018 dapprima a 30 ed infine a €15 miliardi. Da allora, la Bce reinveste solo le somme dei titoli rimborsati perché giunti a scadenza. Qualcuno è forse disposto a negare che il ruolo di principale attore del mercato sia della Bce, che tra l’altro gode di una relativa discrezionalità nel dosaggio degli acquisti mensili che spesso giocoforza oscillano intorno alla predefinita base di ripartizione degli acquisti tra i diversi Paesi?

A questo punto la discussione sui maggiori o minori costi dovrebbe essere già terminata, ma vale la pena superare per un attimo le precedenti obiezioni e provare ad osservare comunque le cifre. Ebbene, da fine maggio, in coincidenza con le insistenti voci relative ad una ripresa del programma di acquisto di titoli pubblici, poi confermata da Draghi ad inizio giugno, il Btp ha innescato una clamorosa discesa che ha portato il rendimento dal 2,50% al 1,30% circa nella settimana delle dimissioni di Conte. Successivamente il rendimento è sceso ancora fino ad un minimo del 0,80% per attestarsi oggi al 1%.

Non credo ci sia bisogno di algoritmi particolarmente complessi per rilevare che la gran parte della discesa (120 punti base, da 2,50% a 1,30%) sia avvenuta quando del nuovo Governo non c’era nemmeno l’ombra ed il movimento al ribasso dei tassi era guidato dalla grande fame di rendimenti in giro per il mondo e dall’annuncio di Draghi. È d’altronde innegabile che l’ulteriore ed ancora più repentina prosecuzione del ribasso sia fortemente correlata con la formazione del nuovo Governo. Ma, se proprio dobbiamo correlare gli eventi politici ai rendimenti dei Btp, vogliamo distinguere la trave del ribasso del Conte 1 dalla pagliuzza del ribasso del Conte 2, quest’ultima magnificata a reti unificate nel tripudio generale?

La bufala dei €20 miliardi di interessi in più, è figlia dello stesso metodo distorto, con l’aggravante che quando il tasso dei Btp sale, allora è demerito di Conte 1, ma quando scende non è merito di Conte 1 ma di Draghi. Salvo poi ricordarsi di riattribuire il merito al neo insediato Conte 2 per una settimana di discesa, dimenticando le 10 precedenti. Quantomeno singolare.

In ogni caso, anche i €20 miliardi non reggono anch’essi alla prova dei fatti. Lo scorso 19 agosto sul Sole si stimava il maggior costo pari a circa €5 miliardi su 2 anni, calcolandolo rispetto all’andamento dei Bonos spagnoli, presi ad esempio di titolo ‘tranquillo’ anch’esso beneficiario degli acquisti della Bce. Ma quel calcolo soffriva di due difetti: non considerava che lo spread Btp/Bonos a maggio 2018 c’era già ed era pari a circa 40 punti e quindi il costo aggiuntivo dei Btp andava ridotto di tale spread iniziale, riducendo la maggiore spesa di almeno un terzo. Ma, soprattutto, trascurava le diverse dimensioni dei due mercati, praticamente l’uno doppio dell’altro, con il Btp mercato preferito per speculare, soprattutto quando la Banca Centrale talvolta sembra improvvisamente assentarsi o comunque ha dovuto diminuire gli acquisti netti a causa della fine del programma di ‘Quantitative Easing’.

Tuttavia se, per un attimo e per assurdo (come se non ci fosse una Banca Centrale né prima né dopo e nessun’altra variabile influenzasse i movimenti dei tassi) accettassimo invece l’arbitraria ipotesi di base che qualsiasi movimento dei tassi da maggio 2018 in poi sia attribuibile ad atti politici ostili ai quali i mercati hanno reagito chiedendo più rendimenti, i numeri sono comunque molto diversi dai €20 miliardi citati da Delrio. Infatti osservando i dati delle emissioni del Tesoro nei 7 mesi da giugno a dicembre 2018, si evidenzia un maggior tasso sui Bot (6/12 mesi) pari a circa 0,7% rispetto alla media dei primi 5 mesi (e perché non fare il confronto con il 2017? Chi decide dove fissare il punto di partenza?), che applicato ai circa €80miliardi emessi, restituisce un maggior costo di circa €0,6 miliardi aumentabile fino a €0,9miliardi per tenere conto anche delle emissioni dei primi mesi del 2019, nelle quali il BOT a 12 mesi è rimasto ancora oltre i livelli di maggio 2018. Inoltre, considerando cumulativamente tutti gli altri titoli emessi (Btp, CTZ, CCTeu, Btp€i) ed un maggior tasso del 1% assegnato in asta rispetto alla media dei primi mesi del 2018, si ottiene un maggior costo annuo di circa €1,5 miliardi che, per una durata media di circa 7 anni, porterebbe il maggior onere a circa €10miliardi. Ma a questo punto, perpetuando l’errore di fissare asticelle arbitrarie, perché non contrapporre a questi €11miliardi, i minori interessi sulle aste da maggio 2019 in avanti, già definiti impropriamente ‘tesoretto’?

In definitiva, piuttosto che costruire scenari fantasiosi, in cui si sceglie il momento iniziale e l’oggetto del confronto in modo arbitrario, forse è meglio concentrarsi sull’andamento effettivo della spesa per interessi e sul tasso medio (unico rilevante ai fini della sostenibilità del debito pubblico) che scende da anni e si prevede che continui a scendere, considerata la trappola in cui si è infilata la Bce.

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