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Vi spiego la guerra fra Caltagirone e Mediobanca su Generali

Quello che dà alla contesa Generali un sapore da capitalismo italiano d’antan sono i contendenti e le loro motivazioni. L'opinione dell'economista Alessandro Penati. Estratto da Domani Quotidiano

 

 

Quello che dà alla contesa Generali un sapore da capitalismo italiano d’antan sono i contendenti e le loro motivazioni.

Mediobanca vuole difendere il suo ruolo in Generali, una partecipazione che detiene da tempo immemorabile, quasi fosse un cassettista o una holding. Ma è una banca di investimento ed è strano che immobilizzi a lungo termine così tanto capitale in una società non strumentale al proprio business, quando la tendenza sul mercato è il contrario: liberare capitale per renderlo disponibile a occasioni di impiego più redditizie.

L’unica ragione plausibile è che dalla partecipazione Mediobanca tragga dei “benefici privati”, ovvero vantaggi relazionali e informativi che derivano dalla nomina dell’amministratore delegato e dalla posizione nell’organo di gestione di uno dei maggiori investitori istituzionali.

Legittimo che Francesco Gaetano Caltagirone e Leonardo Del Vecchio vogliano tutelare il proprio investimento, ma è strano che agiscano come un fondo attivista o un corporate raider che punta a rovesciare il vertice di una società per acquisirne il controllo.

Per fondi e raider questa è attività istituzionale, ma Del Vecchio e Caltagirone sono prima di tutto imprenditori: il primo presiede, da azionista di controllo, la multinazionale Essilux, appena uscita da una fusione travagliata, con un nuovo amministratore delegato, in un momento di importanti cambiamenti nei comportamenti dei consumatori, nella tecnologia e nelle sistemi di produzione; il secondo, controlla diverse società quotate, che vanno dal cemento all’editoria, pur avendone lasciato la gestione ai figli.

La commistione tra imprenditori e finanza, specie in una posizione di controllo, non ha mai prodotto grandi risultati ed è precisamente per questa ragione che la Bce ha impedito a entrambi di esercitare un ruolo attivo nella governance di Mediobanca, di cui sono azionisti rilevanti, pur contendendogli il controllo di Generali, in un malsano groviglio di interessi.

Lecito ipotizzare che anche Caltagirone e Del Vecchio puntino in realtà a quei “benefici privati” che Mediobanca difende. Questo spiegherebbe l’assenza di documentate argomentazioni a favore e contro l’attuale vertice, e di proposte precise per l’assemblea, come invece farebbe un fondo attivista.

Per Mediobanca l’amministratore delegato Philippe Donnet merita il rinnovo avendo “gestito bene”, ma non dice sulla base di quali parametri. Caltagirone e Del Vecchio lo criticano perché la dimensione di Generali sfigura al confronto dei maggiori concorrenti, ma non spiegano come farebbero a farla diventare “grande”.

Nei sei anni in cui Donnet è stato alla guida di Generali il titolo in Borsa ha ricalcato l’indice europeo di settore: in linea con Axa, ma 13 per cento peggio di Allianz e 30 di Zurigo, per rimanere tra i grandi gruppi.

Secondo il consenso degli analisti, Generali avrà quest’anno un rendimento sul capitale inferiore ad Allianz e Zurigo (9,6 per cento, rispetto a 10,2 e 13,8) e una crescita inferiore degli utili attesi in futuro (come evidenziato da un rapporto prezzo/utili attesi inferiore).

Anche se la gestione non può certo essere definita deficitaria, ci sarebbe quindi ampio margine per creare valore in Generali. Ma come? Non certo tramite le grandi acquisizioni che Caltagirone e Del Vecchio sembrerebbero auspicare, perché la regolamentazione pone un limite alla leva delle assicurazioni, e perché diluirebbero troppo gli azionisti se fatte con azioni.

Più percorribile la strada della redditività e della crescita prospettica degli utili, anche per aumentare i multipli ai quali il mercato valuta il titolo.

(Estratto di un articolo pubblicato su Domani Quotidiano; qui la versione integrale)

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