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Vi spiego i veri errori di Conte e Draghi sul Pnrr

Il Pnrr fra storia e cronaca. L’approfondimento di Giuseppe Liturri

Dapprima è arrivato il capogruppo leghista alla Camera, Riccardo Molinari che, con il suo “meglio non spendere i soldi che spenderli male”, ha aperto il dibattito sulla effettiva utilità dei tanti progetti del Pnrr. Poi si sono addirittura uniti due insospettabili dalle colonne di Repubblica. Parliamo dei professori Tito Boeri e Roberto Perotti, dai quali abbiamo sentito ripetere, quasi parola per parola, quanto siamo andati scrivendo su queste colonne sin da quei giorni della primavera/estate del 2020 che precedettero e seguirono il Consiglio Europeo di luglio, dal quale il premier Giuseppe Conte tornò con la (ormai tristemente) famosa pioggia di miliardi. Anche questa “gratuita”, come il superbonus. I due economisti hanno sostenuto che “non è vero che rinunciando ai fondi presi a prestito l’Italia farebbe una pessima figura: prendere atto della realtà è uno dei marchi dei veri statisti. Nessun Paese, neanche i meglio amministrati, potrebbe gestire utilmente ed efficientemente un tale fiume di denaro in così poco tempo”.

Mercoledì Fabio Dragoni ci ha fornito numerosi esempi che confermano la dubbia utilità ed efficienza di numerosi interventi previsti dal Pnrr. In altri tempi, se tali interventi fossero stati inclusi in una ordinaria legge di bilancio, si sarebbe parlato di “pioggia di marchette” o “assalto alla diligenza”, locuzione che addirittura coniò Giovanni Giolitti più di un secolo fa. Oggi sembra che spendere denaro pubblico, preso a debito con la Ue, in mille rivoli senza preoccuparsi dei ritorni economici e sociali, sia diventata una virtù.

A monte dei problemi di oggi, ci sono ben precise responsabilità politiche. In prima battuta attribuibili al governo Conte 2 ed al governo Draghi. Il primo ha sempre dato per scontato che alla quota di sussidi – a carico del bilancio UE ma, in ultima istanza, sempre a carico dei contribuenti italiani – dovesse aggiungersi la quota dei prestiti. Quando invece il regolamento UE dispone chiaramente che la quota di prestiti (fino al 6,8% del Reddito Nazionale Lordo) avrebbe dovuto essere “giustificata dai fabbisogni finanziari più elevati connessi alle riforme e agli investimenti supplementari” e che, per questo motivo, avrebbe potuto essere chiesta successivamente “entro il 31 agosto 2023”. Chissà quanto ci avrebbe fatto comodo attendere questa scadenza anziché “portare a casa più soldi possibile per poi porsi il problema di come spenderli”. Con il risultato, restando sempre alle parole di Boeri e Perotti, di chiedere alle amministrazioni “di tirare fuori i progetti che avevano nel cassetto e spostare sul Pnrr progetti già avviati o cantierati”.

Il Governo Conte 2 ad inizio gennaio 2021 era già pronto con uno scarno compitino da 167 pagine che scontava già il peccato originale di chiedere addirittura 210 miliardi alla UE. Poi è arrivato Mario Draghi che, in 10 settimane, ha rimpolpato in fretta e furia quel piano, senza però mai chiedersi se avesse senso chiedere anche la quota prestiti. Un atto di ricognizione che sarebbe stato logico attendersi da un “tecnico” di tale levatura, ma che purtroppo non è mai arrivato.

Ora ci ritroviamo nei panni di Achille che cerca di raggiungere la tartaruga, senza raggiungerla mai, come nel famoso paradosso che, nel nostro caso, potrebbe risultare vero.

Infatti aver richiesto anche quella mole di prestiti – in compagnia di soli altri 5 piccoli Paesi – ci impone una tabella di marcia serrata fatta di dieci rate nelle quali sono frazionati ben 527 traguardi ed obiettivi, distinti tra riforme ed investimenti. Uno sforzo titanico che nessun Paese si è nemmeno sognato di progettare. La Spagna per ottenere 69 miliardi di sussidi, deve conseguire i suoi 415 obiettivi in più comode otto rate. La Germania ha 129 obiettivi in cinque rate, per 25,6 miliardi di sussidi. Allo stesso modo la Francia, con 175 obiettivi tra investimenti e riforme, per 39,3 miliardi di sussidi. Ma l’aspetto decisivo e clamoroso è che il timore di “perdere i soldi” in caso di ritardo nella presentazione delle richieste alla Commissione è figlio di un dibattito che esiste solo in Italia. Infatti il regolamento prevede che “si possono presentare alla Commissione tali richieste di pagamento due volte l’anno”. Ovviamente un tetto massimo (c’è scritto possono, non devono) che non preclude di poter effettuare una solo richiesta o nemmeno una. Prova ne è che, ad oggi, solo 13 Paesi hanno richiesto ed ottenuto la prima rata, 6 Paesi la seconda rata e solo una la terza rata. Nessuno sta correndo, perché le scadenze sono “indicative” ed il numero gestibile di obiettivi ha consentito più tempo tra una rata e l’altra. L’unica scadenza perentoria è quella che prevede che i “pagamenti siano effettuati entro il 31 dicembre 2026”. Purtroppo, l’Italia ha sulle spalle una zavorra di dieci rate, perché era l’unico modo per spalmare un numero abnorme di cose da fare, che si sta rivelando comunque ingestibile.

A prescindere dalle valutazioni nel merito di cosa si intende fare, c’è il problema di come finanziarsi. Perché quelli che, a metà 2020, apparivano come prestiti a tassi prossimi allo zero, ora non lo sono più. La Commissione si finanzia sui mercati, come tutti gli Stati sovrani e, qualche giorno fa, ha dovuto concedere agli investitori un rendimento del 3,35% per un titolo a 25 anni, il 2,81% per il decennale e, addirittura, il 2,86% per il 3 mesi e il 3,05% per il sei mesi.

L’ultimo BOT a 6 mesi ha offerto un rendimento del 3,09%, a 12 mesi il 2,96%. Il trentennale emesso dal Mef a gennaio ha offerto il 4,53%. Quindi sulle scadenze brevi, la presunta convenienza nell’indebitarci con la UE è nulla ed oltre i 10 anni, oscilla tra 100 e 120 punti.

Ma qual è il costo dell’immenso apparato burocratico messo in piedi per il Pnrr? Quale sarà il “ricarico” per i suoi oneri che la Commissione applicherà sui tassi poi applicati all’Italia? Buio totale, come fu a lungo per il costo dei debiti del fondo Sure. Quando faremo i conti, quella presunta convenienza iniziale sarà spazzata via.

Il Presidente Giorgia Meloni prenda atto che il Pnrr è fatto di cose di dubbia utilità ed ora pure pagate a caro prezzo. Il coraggio che non hanno avuto Conte e Draghi.

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